Covid: perché il virus muta. E perché il vaccino glielo impedirà

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* Membro dell’American Academy of Microbiology

Ad un anno dal primo decesso per Covid-19 in Italia, scopriamo che secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, per la quinta settimana consecutiva, sono calati i casi di infezione da Sars-Cov-2 nel mondo, e l’incidenza si è quasi dimezzata fra gennaio e febbraio 2021. Significa forse che il coronavirus è in difficoltà, e perché lo sarebbe? Le sue varianti sono una risposta a queste difficoltà e come possiamo e dobbiamo combatterle?   

Variante inglese, a marzo sarà lei a prevalere

Come tutti gli esseri viventi, anche il perfido coronato vuole riprodursi e da virus qual è lo può fare solo infettando un altro essere vivente, in questo caso precisamente noi, Homo sapiens. E’ la debolezza di tutti i virus, da soli non ce la fanno. Quando verso fine 2020 è apparso su questa terra, ancora non sappiamo esattamente dove e come, ha trovato quasi 8 miliardi di persone, tutte potenzialmente suscettibili all’infezione. Nonostante questa amplissima platea a disposizione, ha subito ingranato una marcia in più, facendo una mutazione nella proteina Spike, la D614G, molto studiata anche da noi in Italia, che gli ha garantito un incremento di trasmissibilità, quindi una rapida e straordinaria diffusione in tutto il mondo. Un 10-15% di quelli che è riuscito ad infettare si è ammalato e un 1-2%, quelli con un sistema immunitario vecchio e indebolito da vari malanni, sono deceduti. I danni sono stati enormi  non solo per l’elevatissimo numero di morti (siamo oggi a più di due milioni) ma anche per le straordinarie perdite sanitarie, economiche  e sociali inflitte alla comunità. Ha anche usato un magnifico trucco: farsi trasportare da persone ignare di albergarlo, gli asintomatici, cioè soggetti, in genere giovani e sani, che pur essendo infetti non manifestano sintomi o questi sono così leggeri e transienti da non richiedere attenzione medica. Niente di male, anzi, se non fosse che nel loro nasofaringe il virus ben ci vive e può essere trasmesso ad altri come fa il soggetto ammalato. L’esistenza di questi celati untori è stata un’importante differenza rispetto al virus della Sars del 2002-2003 e il vero tallone d’Achille della nostra iniziale lotta al virus.

Covid, in Italia oltre 600 varianti

Di fronte ad un nemico così ingegnoso, fino a dicembre 2020 ci siamo difesi con distanziamento, mascherine e quarantena, più o meno come facevano gli umani terrestri dei secoli passati, privi di conoscenze microbiologiche ma consapevoli che l’ignoto si diffondeva per aria, e stando vicino agli ammalati. Alcuni Paesi, non solo la Cina, lo hanno fatto e continuano a farlo tanto bene da porre una reale barriera fisica all’infezione, trasformando di fatto popolazioni suscettibili in funzionalmente resistenti. Altri, vedi Stati Uniti in epoca trumpiana, non lo hanno fatto e il prezzo pagato è stato e continua ad essere molto alto, verso i 500mila morti, molto più che in tutte le guerre che hanno fatto finora.

Oggi però è un’altra storia. Come supertecnologici cittadini del ventunesimo secolo, conoscitori di vizi e virtù delle submicroscopiche particelle che ci attaccano e dei pregi di chi da esse meglio ci difende, i vaccini, abbiamo avuto una straordinaria reazione: in meno di un anno, con un immane, ammirevole sforzo tecnologico, finanziario ed umano, siamo riusciti ad ottenere dei vaccini capaci di neutralizzare il nuovo coronavirus.

Coronavirus, dai contagi all’efficacia dei vaccini: cosa sappiamo della variante inglese

La domanda è adesso come si comporterà quando l’estesa vaccinazione si aggiungerà alle barriere fisiche poste alla sua trasmissione (nel complesso i Paesi che lo fanno bene rappresentano almeno un paio di miliardi di individui) e ad un numero ormai non trascurabile (circa mezzo miliardo secondo realistici calcoli) di persone non più suscettibili perché naturalmente immunizzate dalla pregressa infezione e dal superamento della malattia.

Longform

Varianti e mutazioni, la strategia del virus per ingannare il nostro sistema immunitario

Fa l’unica cosa che può fare per non sparire: mutare, cioè cambiare qualcosa che gli consenta di continuare ad infettare per potersi replicare. Le mutazioni sono sostituzioni e delezioni di nucleotidi del  genoma virale che avvengono casualmente durante la replicazione. Quelle che non riesce a riparare, possono causare modifiche della struttura e funzione dei suoi costituenti, compreso lo spike, la proteina esterna che agganciandosi al  recettore Ace2 delle nostre cellule consente al virus di infettarci. Se gli conferiscono un vantaggio vengono selezionate e fissate nel genoma. In questa fase, il vero vantaggio per il virus sono quelle mutazioni che gli alzano la capacità infettante, il suo fattore riproduttivo R0, per ovviare alla diminuzione progressiva dei suscettibili di cui ho detto sopra. Sappiamo, peraltro, che si stanno selezionando varianti virali  che sembrano far diminuire l’efficacia dei vaccini. Con questa mutazione, il virus potrà trarre vantaggio dalla presenza di persone che pur vaccinate restano ancora suscettibili all’infezione.  

Tamponi rapidi: le varianti non sfuggono ma solo il molecolare dà certezze

Questi meccanismi sono chiaramente evidenti in quello che è successo a Manaus, in Brasile  a dicembre 2020.  In una popolazione già tanto colpita dalla prima ondata di infezioni da essere considerata aver raggiunto l’immunità di gregge  è emersa la variante brasiliana, con la mutazione  E484K in grado di eludere parte dell’immunità prima acquisita. Ma una variante più trasmissibile può anche essere selezionata in una situazione particolare come è avvenuto con la mutazione N501Y della ormai diffusa variante inglese. Questa si sarebbe originata in un paziente trattato con siero convalescente ricco di anticorpi anti-coronavirus. Sappiamo ancor meno sull’origine della variante sudafricana eccetto che essa resiste alquanto bene ad almeno uno dei  vaccini che stiamo usando. Tutte e tre queste varianti possono differire in altre caratteristiche, compresa la patogenicità, ma sono tutte invariabilmente più trasmissibili del virus prima dominante, quello con la mutazione D614G. Ora che tutti i Paesi stanno sequenziando il genoma dei loro isolati virali, di varianti ne vengono sfornate a getto continuo, a dimostrazione della realtà dell’attuale forte competizione fra noi ed il virus.

Covid, perché le nuove varianti fanno paura

Sars-Cov-2 potrebbe sì apparire mediamente in ritirata nel mondo, come suggeriscono i numeri dell’Oms, ma si starebbe rapidamente attrezzando per ritornare prepotentemente e pericolosamente alla ribalta. Non diamogli il tempo di riorganizzarsi, acquisire nuove armi e rimettersi a correre. Come ha fatto rilevare su uno degli ultimi numeri di Jama Paul Offit, l’inventore dei vaccini contro il rotavirus, queste mutazioni vengono selezionate quando il virus è sotto la pressione degli anticorpi di persone immunizzate naturalmente o vaccinate, e gli anticorpi limitano ma non eliminano la replicazione e la trasmissione del virus. In un certo senso, le varianti sono una misura delle difficoltà che il virus sta incontrando e del suo tentativo di superarle. Credo che in questo momento dovremmo utilizzare al massimo tutto quello che gli può impedire di espandersi: continuare a ridurre il numero dei suscettibili, vaccinando sì al massimo possibile ma anche rafforzando le barriere fisiche, lockdown mirati o generalizzati che siano, secondo la situazione. Blocchiamo le varianti, sia per la loro trasmissibilità che, soprattutto, per il pericolo che mettano in crisi quei vaccini che con un immane, ammirevole sforzo tecnologico, finanziario ed umano, siamo riusciti ad ottenere. E’ l’ora di dare al perfido coronato il colpo che merita.

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