Daniele Franco è il nuovo ministro dell’Economia: la “diga” per i conti pubblici di quattro governi

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Se ci fosse un Oscar dei conti pubblici il migliore italiano in lizza sarebbe lui: Daniele Franco, nuovo ministro del Tesoro del governo Draghi. Almeno due posizioni hanno caratterizzato la sua carriera sempre segnata dall’occhio vigile e competente sul bilancio dello Stato. La prima in Banca d’Italia quando è stato a lungo al Servizio studi, fino a diventarne il capo, e dove da sempre ha seguito la finanza pubblica, esprimendo la linea e le osservazioni di Via Nazionale durante le audizioni parlamentari ad ogni Finanziaria e ogni provvedimento di bilancio. La seconda esperienza, di ben sette anni, è stata a Via Venti Settembre nella posizione cruciale di Ragioniere generale dello Stato. Qui ha avuto a che fare con quattro governi: Letta (che lo nominò), Renzi e Gentiloni e poi dal 2018 con il gialloverde Conte 1.

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Cortese, riservato, ma senza rinunciare all’ironia e alla battuta, Daniele Franco in quei sette anni è stato una diga per i conti pubblici. Ha avuto a che fare con Matteo Renzi che batteva i pugni sul tavolo a Bruxelles e si ricorda anche di un provvedimento di Gentiloni che dovette essere rivotato dal Senato perché le cifre non tornavano. Ma fin qui era normale amministrazione e i rapporti con il governo e con Pier Carlo Padoan erano ottimi. È stato l’arrivo dei gialloverdi a costringerlo a sfoderare la forza e la pazienza di chi è abituato a salire per ore le cenge e i sentieri dolomitici che gli sono familiari (è nato a Trichiana in provincia di Belluno). In quei luoghi torna quando può. Anzi c’è chi giura che quando Casalino lo attaccò, con un volgare fuori onda, perché non voleva cedere sul rispetto dell’articolo 81 della Costituzione, minacciò proprio di tornarsene sulle sue montagne senza problemi. La marcia fu dura perché i gialloverdi volevano sfondare il bilancio, fare la flat tax, reddito di cittadinanza, quota 100 e quant’altro. Daniele Franco, servitore dello Stato, non boicottò ma rese possibile la manovra solo imponendo una serie di condizioni: pretese l’introduzione di un “catenaccio” che avrebbe consentito di monitorare le spese e inserire clausole anti-sforamento. E in quel periodo, quando Bruxelles ci teneva particolarmente sotto tiro, la sua esperienza di lavoro alla fine degli Anni Novanta alla Commissione europea, ci fu utile per mantenere almeno il funzionamento dei canali di comunicazione.

Bankitalia e il governatore Visco lo riaccolsero a braccia aperte nel maggio del 2019, con la carica di vice direttore generale. Poco meno di un anno dopo è diventato direttore generale, il numero due della struttura, che deve avere uno sguardo a 360 gradi sulla banca.

Era entrato nel 1977, dopo la laurea in Scienze politiche a Padova e gli studi all’Università di York in Gran Bretagna. Oggi a 68 anni non ancora compiuti torna da ministro a quella che forse è la sua passione principale: la finanza pubblica. “Debito e crescita”, senza drammatizzare ma con rigore sono i suoi punti focali che ha espresso in recenti interventi. Ispirandosi a colui che ritiene il suo punto di riferimento, Sergio Steve, maestro della Scienza delle Finanze italiana, anche lui amico di Federico Caffè, ed esponente di quella tradizione italiana da De Viti de Marco a Einaudi che aveva ben presenti i limiti del mercato e anche quelli dello Stato. Lo aspetta la scrivania di Quintino Sella, instancabile controllore dei conti pubblici e grande camminatore nei sentieri montani. E il rapporto diretto con Mario Draghi di cui è amico da sempre.

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