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Declino industriale al Sud: da Ilva a Whirlpool, sale la tensione sociale per le crisi senza fine

“ABBIAMO bisogno di più alluminio primario, ma nella Ue non ne produciamo a sufficienza. Ci tocca quindi importare pagando dazi che negli ultimi vent’anni si sono tradotti in extra costo di 60-80 dollari per tonnellata”. Mario Conserva è il presidente della Federazione europea dei consumatori di alluminio primario, un metallo essenziale nella produzione di settori che vanno dai trasporti all’energia, dall’imballaggio all’edilizia. In Italia esiste (o, meglio, esisteva) una sola fabbrica di Alluminio primario, e lo stabilimento è nel Meridione: la ex Alcoa (oggi SiderAlloys) nel Sulcis, Sardegna, che all’apice della sua attività forniva l’alluminio anche alla Ferrari. L’impianto di Portovesme è fermo dal 2014, quando la multinazionale americana (Alcoa) delocalizzò, e la nuova proprietà (SiderAlloys) non riesce ancora a far ripartire la produzione nonostante gli impegni del governo e la lotta, ormai epica, dei suoi oltre 700 operai che, per anni, hanno ritmato le proteste sotto le finestre del Ministero dello Sviluppo Economico sbattendo i caschi da lavoro sull’asfalto. Oltre ad occupare porti e aeroporti.

A Flumeri, un manciata di chilometri da Avellino, l’Industria italiana autobus sta provando a uscire dal tunnel di una crisi decennale, grazie anche all’intervento dello Stato (Invitalia e il gruppo Leonardo) e, anche qui, alla resistenza operaia. Iia produce autobus (a Fumeri e nello stabilimento bolognese, per un totale di 800 addetti), ma paradossalmente non riesce a intercettare la domanda in crescita di trasporto sostenibile, accentuata oltretutto dagli effetti della pandemia. L’amministratore delegato dell’Azienda ha comunicato ai sindacati l’assenza di nuove commesse. Gli investimenti sulle nuove tecnologie, in particolare elettrico e idrogeno, vanno avanti ma il governo è venuto meno all’impegno di mettere intorno al tavolo Regioni, Comuni e Consip (la centrale acquisti dello Stato) per implementare gli ordini di mezzi per il trasporto pubblico.

SiderAlloys in Sardegna e Iia in Campania: due storie che fotografano il declino manifatturiero del Sud e l’endemica latitanza della politica industriale in Italia. Assenza grave per l’intero Paese e drammatica per il Mezzogiorno dove interi territori legano la propria sopravvivenza economica a fabbriche sempre più in ginocchio. Dalla ‘madre di tutte le crisi’, la ex Ilva di Taranto con i suoi 8.000 operai (senza considerare le migliaia di lavoratori dell’indotto), il cuore siderurgico d’Italia appeso alle incertezze di un rilancio pubblico-privato (Invitalia e ArcelorMittal) dal quale dipende la sostenibilità di buona parte del sistema industriale nazionale che consuma acciaio; alla ex Fiat di Termini Imerese, dove la fine del sogno automobilistico siciliano ha lasciato la desolazione della fabbrica che, arrivando a occupare fino a 3000 persone, sfornava Cinquecento, 126 e Panda e oggi, assediata dalle sterpaglie, attende complicatissime ipotesi di reindustrializzazione. Dalla Whirlpool di Napoli, chiusa lo scorso anno dalla multinazionale americana che, però, continua a produrre elettrodomestici negli altri stabilimenti italiani; alla Jabil di Marcianise (Caserta), un’altra storia di abbandono da parte delle multinazionali (hi-tech in questo caso) di un territorio alla disperata ricerca di una speranza per il futuro. E in Puglia il declino del tessile, il rebus della Bosch di Bari, della OM Carrelli. Mentre centinaia di piccole aziende meridionali fanno i conti, amarissimi, con gli effetti economici del Covid.

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“Colpisce in primo luogo – si legge nell’ultima edizione del Rapporto sulle imprese industriali  del Mezzogiorno, realizzato nel 2019 dalla Fondazione Ugo La Malfa e dall’Area studi di Mediobanca – il sostanziale fallimento delle politiche di industrializzazione del Meridione nelle quali sono state profuse ingenti risorse a partire dagli immediati anni del dopoguerra. Se si considera che il vasto sistema delle partecipazioni statali ha ormai solo pochi capisaldi nell’Ilva di Taranto (attualmente facente capo ad un operatore privato internazionale), in alcuni stabilimenti petrolchimici dell’Eni in Sicilia e in alcuni stabilimenti meccanici in Puglia e Campania facenti capo al settore aerospaziale della ex Finmeccanica, si constata un primo sostanziale fallimento. Per contro l’impresa privata ha avuto e ha una presenza piuttosto sporadica nel Mezzogiorno, salvo alcune concentrazioni in Campania, in Puglia e, seppure in crisi, nell’Abruzzo intorno al polo dell’automobile”. D’altro canto sono i dati di base a cristallizzare il ritardo del Sud industriale: il numero delle medie imprese (da 50 fino a 500 dipendenti) attive nelle province del Nord-Est, per dire, è superiore al numero complessivo di quelle di tutto il Meridione. Ma, parafrasando Cuccia, le crisi si pesano e non si contano, così scorrendo i verbali del centinaio di tavoli aperti al Mise (almeno un terzo i casi meridionali) colpisce la profondità delle emergenze che, secondo le stime più aggiornate, coinvolgerebbero nel Sud quasi 20mila posti di lavoro. Uno spessore rilevante in proporzione a territorio e demografia.

“Se si includono nel calcolo dell’occupazione industriale i dipendenti degli stabilimenti con più di 500 addetti – si legge ancora nello studio Fondazione La Malfa-Mediobanca pubblicato a dicembre del 2019, vale a dire alla vigilia della pandemia – non si arriva a 120mila dipendenti in tutto il Mezzogiorno. Tenendo conto della popolazione delle 8 regioni meridionali  si vede che l’industria ‘ufficiale’ dà un contributo molto modesto all’occupazione meridionale. E’ evidente che a questi numeri vanno aggiunte le cifre sull’occupazione delle imprese industriali di piccole dimensioni e il lavoro irregolare. Ma si tratta comunque di un comparto che contribuisce troppo poco all’occupazione complessiva nel Mezzogiorno”.

Un quadro che l’emergenza Covid ha aggravato, soprattutto sul fronte occupazionale. “Nel 2020 il trend delle attivazioni nette in Campania, Puglia e Sicilia – spiegano i dati elaborati per Repubblica dal Centro studi dell’Associazione Lavoro&Welfare, riferito a tutti i settori economici e relizzato con la collaborazione di Maria Giovannone e Luca Torroni  – è stato negativo rispetto all’anno precedente. Nello specifico, tra le tre è la Puglia ad aver subito il calo più evidente nel saldo tra attivazioni e cessazioni, registrando un crollo di 10mila attivazioni nette totali (-1,7%). A seguire la Campania con un calo di 7mila attivazioni nette totali (-0,9%), mentre la Sicilia è riuscita a contenere il gap negativo, registrando un calo di ‘sole’ mille attivazioni nette (-0,2%), piazzandosi immediatamente dietro a Calabria e Molise”. E a limitare i danni per il Sud è stata l’estensione dell’accesso alla Cassa integrazione in deroga e a quella straordinaria (vedi grafici all’interno di questo articolo). La prima, infatti, rileva sempre L&W, con il solo riferimento alla Sicilia ha registrato un totale di oltre 40 milioni di ore autorizzate nel 2020, con dati impressionanti per le province di Palermo (oltre 10 milioni di ore), Catania e Messina.

“I numeri dimostrano che non tutti i cittadini hanno pari dignità – dice l’ex ministro Cesare Damiano che guida Lavoro&Welfare – . Intanto tra Nord e Sud,  ma anche nell’ambito delle stesse regioni convivono sacche di arretratezza insieme a spinte dinamiche: l’intervento pubblico è ancora più doveroso non solo sul piano dell’equità e quindi delle tutele, ma anche su quello della crescita. È necessario inaugurare una stagione di investimenti per far ripartire l’economia, considerando il Sud non a sé stante, ma nel contesto organico del Paese e dell’Unione europea. Dunque non interventi indifferenziati, ma rinforzare la capacità di attrarre investimenti attraverso la crescita delle infrastrutture, la reindustrializzazione connessa agli obiettivi di digitalizzazione e neutralità ambientale dell’economia. Ed è necessario sostenere in modo robusto e puntuale il reskilling della forza lavoro”. Una sfida, quest’ultima, che deve fare i conti con un’altra emergenza che lo Svimez ha battezzato come “nuova emigrazione”: dall’inizio del nuovo secolo hanno lasciato il Mezzogiorno 2,1 milioni di residenti, “di cui la metà è rappresentata da giovani di età compresa tra i 15 e i 34 anni, quasi un quinto laureati. Il 16% si è trasferito all’estero e oltre 850mila di loro non rientrano più nel Meridione”.

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Tornando alla questione specifica dell’industria, Damiano avvista anche elementi di ottimismo: “Il Mezzogiorno è un bacino rilevante della manifattura italiana, con un tessuto produttivo composto di migliaia di imprese in settori come automotive, aerospazio, abbigliamento-moda, agroalimentare e farmaceutico. Questo tessuto – aggiunge l’ex ministro –  è già collegato a quello del Nord anche attraverso consolidati percorsi di sub-fornitura”. Anche lo studio della Fondazione La Malfa-Mediobanca sottolinea come, confrontando l’incidenza del costo del lavoro sul valore aggiunto, “le imprese di media dimensione del Mezzogiorno abbiano caratteristiche sempre più simili a quelle del resto del Paese. Considerando che nell’Italia settentrionale è stata ormai raggiunta, di fatto, la piena occupazione, mentre nel Meridione vi è ancora una larga disponibilità di mano d’opera, la localizzazione di medie imprese nel Mezzogiorno potrebbe avere delle prospettive promettenti”.

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L’ottimismo della volontà, verrebbe da dire, guardando alle tante crisi industriali nel Sud che da decenni non riescono ad avvistare concrete speranze di soluzione. E se è vero come ha scritto di recente Federico Pirro, docente di storia dell’industria all’Università di Bari, che quello del ‘Sud deserto industriale’ è probabilmente solo un luogo comune (lo dimostrano, secondo Pirro, l’Ilva, gli stabilimenti Fca, i distretti aeronautici, le raffinerie, i cluster di piccole e medie imprese), non può sfuggire come la ‘questione meridionale’ continui ad essere anche una questione industriale. E di questo dovrà occuparsi Mario Draghi nel selezionare i progetti per il Recovery Plan: “E’ necessario far ripartire il processo di convergenza tra Sud e Centro-Nord fermo ormai da decenni”, ha detto il premier qualche giorno fa. Un impegno dal quale dipende il futuro di decine di migliaia di operaie e operai che sono in pressing sul ministro dello Sviluppo Economico, Giancarlo Giorgetti, fin dal primo giorno del suo insediamento quando proprio i lavoratori della Whirlpool di Napoli manifestarono sotto le finestre del dicastero.

“In Italia le grandi imprese, quelle che avevano fatto innovazione negli anni Ottanta – dice l’economista Riccardo Gallo – sono molto diminuite di numero e quelle piccole hanno minor capacità di fronteggiare la crisi. Nel nostro Paese non si riesce neanche a dar vita a distretti industriali di nuova generazione e a distretti culturali evoluti. E questo vale soprattutto per il Mezzogiorno. La ricetta per il rilancio? L’intervento pubblico per salvare imprese nella sostanza fallite non ha mai risolto nulla, dunque le aziende recepiscano le innovazioni per una loro convenienza economica, nel loro egoistico interesse, senza aiuti dello Stato che, da parte sua, deve solo creare le condizioni generali e infrastrutturali”.

Ricette, previsioni, analisi. Domani, intanto, i lavoratori della Whirlpool di Napoli terranno un’assemblea aperta in piazza del Plebiscito. La tensione sociale cresce nel Sud e gli operai ricordano al Paese che, nell’era della Gig economy, loro e le fabbriche esistono (e lottano) ancora.



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