Deschamps: “Brava Italia ma vengo per vincere”

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CLAIREFONTAINE-EN-YVELINES. C’è un castello nella foresta, ci sono campi di pallone a perdita d’occhio attorno al castello e c’è anche una riproduzione gigantesca e un po’ pacchiana della Coppa del Mondo, saranno tre metri di trofeo. È qui che la Francia costruisce i suoi campioni, accudendoli quando sono in età da scuola media (anche Mbappé è cresciuto tra questi boschi) ed è qui che Didier Deschamps lavora tra la fierezza (“I campioni del mondo siamo ancora noi, almeno per anno”) e il bisogno di smaltire la delusione di Euro 2020. Domani lui e la sua nazionale saranno a Torino per la semifinale con il Belgio, ma anche per il senso di una rimpatriata. “Una parte di me è italiana. Sei anni in una vita di un uomo sono pochi ma per un calciatore sono tantissimi: sono mezza carriera. Sono marchiato da quello che ho vissuto da voi. E sbagliai ad andare via dopo aver allenato la Juve in serie B”.

Si sente un po’ italiano anche nel lavoro?
“Da calciatore ho trovato a Torino tutto quello che volevo: l’esigenza del risultato, la cultura della vittoria, una società con ogni persona al posto giusto, dal massaggiatore al presidente, un ambiente familiare nonostante le ambizioni alte. Ho conosciuto il sentimento del benessere della vita. Sul lavoro specifico, caddi in un momento felice, con Lippi, Moggi, Bettega e Giraudo e il loro modo di gestire. Quell’esperienza mi è servita eccome, anche se oggi non faccio quello che facevo 20 anni fa e tutto quello che ho imparato l’ho dovuto adattare a alle mie caratteristiche”.

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L’ha sorpresa il ritorno di Allegri alla Juve?
“Siccome non mi piace quando vengono a commentare quello che faccio io, mi guardo bene dal commentare quello che fanno gli altri. Però niente mi sorprende”.

Ci vede un po’ meglio, dal suo punto di vista privilegiato?
“Sono contento per voi. E sono realista: chi vince è il più forte, nulla da aggiungere. L’ho detto anche a Mancini dopo Wembley, anche se non so se ha ricevuto il messaggio che gli ho fatto recapitare. Per voi c’è stato un momento durissimo. Non è stata una tempesta, di più: uno tsunami. Ma è stata anche l’occasione per riflettere e fare le cose diversamente. Adesso forse da voi il gioco è più aperto, ma sono valutazioni che vanno fatte su un periodo più lungo, vediamo. Ma di certo era nel momento più duro, che dovevate ripartire”.

Questo è il suo momento più duro?
“Io sono l’unico responsabile di quello che è successo a Euro 2020. Avremmo potuto fare diecimila cose diversamente prima, ma non sarebbe cambiato nulla di quello che è successo dopo, in quei 10′ contro la Svizzera, e che non doveva né poteva succedere. Mi sono assunto ogni responsabilità senza cercare né risposte né giustificazioni, che sarebbero subito diventate delle scuse”.

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L’eliminazione con la Svizzera è stato il giorno più nero della sua carriera?
“Non è stato il più felice, ma la finale di Euro 2016 mi ha fatto più male. Essere vice campioni nel calcio non conta niente”.

Dopo il titolo del 2018, la Francia non ha mantenuto tutto ciò che prometteva: è una valutazione corretta?
“Sono passati tre anni: tantissimi. Dei 23 campioni del mondo qui con me ne ho 8. Ho fatto cambiamenti importanti, ho dovuto ossigenare il gruppo con dei giovani, c’è molta concorrenza interna: persino tra due fratelli come gli Hernandez. Dall’ultimo Europeo ci aspettavamo tutti, io compreso, di arrivare più lontano, ma ormai è andata. Quello che abbiamo fatto in Russia non si può ripetere: ci sono diversi modi di arrivare alla vittoria, non è che funziona sempre lo stesso, e io sono qui per trovare soluzioni. Lavorare in nazionale è difficile, spesso non hai neanche il tempo di fare un allenamento tattico prima della partita, per cui è importante avere un zoccolo duro già abituato al nostro metodo e poi rinfrescarlo con l’ossigeno dei giovani”.

È Pogba la vostra guida, oggi?
“A livello di leadership è cresciuto. È leader sul campo e anche a livello comunicativo, e lo era già in Russia: nello spogliatoio si esprime con le parole giuste ma anche con il giusto modo di dirle”.

Però scapricciava spesso sulla posizione in campo, anche in Russia.
“Lui ha bisogno di toccare il pallone. A Manchester vedo che lo mettono spesso a sinistra, ma non è tanto la posizione che conta, è far passare il gioco da lui, ovunque sia. Senza contare il lavoro che fa: contro la Finlandia ha recuperato 17 palloni, che a livello statistico sono un’enormità”.

Mbappé sembrava più forte due anni fa: è d’accordo?
“A 22 anni ha già giocato 50 partite in nazionale, senza considerare i gol e gli assist: vi rendere conto? Il problema è che lui è stato subito grandissimo, suscitando attese talmente alte che sembra che non le mantenga mai. Però fa parte di quei pochi giocatori al mondo che non hanno bisogno degli altri, perché da solo può fare la differenza. Malgrado questo, sa che anche lui dipende da un’organizzazione. All’Euro era andato con buone intenzioni, ma alla fine non ha trovato il gol anche se è entrato in tutte le azioni chiave. Lui è un mondo a parte, ha abituato tutti troppo bene. Deve sempre fare di più, non basta mai”.

Gli farebbe bene cambiare squadra e campionato?
“Per me che giochi a Madrid o a Parigi non cambia niente. Adesso la scelta è sua e se le scelte sono buone lo sai solo dopo”.

Il tridente stellare del Psg fa fatica, come ha fatto fatica quella della Francia: perché la classe da sola non basta mai?
“È facile aggiungere talento a talento a talento, ma poi serve l’equilibrio. Oggi non puoi perdere un giocatore in fase difensiva, né basta dire: metto il tridente. E gli altri sette? Io ci ho provato con Benzema, Griezmann e Mbappé: non dico che non abbia funzionato, ma poteva funzionare meglio. E sto ancora lavorando per farlo funzionare”.

Ha pensato di mollare, quest’estate?
“Quando vinci tutto sembra meraviglioso, ma non è così. E quando perdi tutto sembra un disastro, ma non è così. Dopo l’eliminazione il mio presidente ha voluto sapere quali fossero il mio spirito, la mia determinazione, la mia voglia di continuare. Per la verità poteva anche cambiare a prescindere dalle mie risposte. Io ho voluto staccare un po’ per fare un’analisi il più oggettiva possibile: il risultato è che sono ancora qui. E non è che vado avanti solo per farlo”.

Nove anni da ct non sono troppi?
“La mia avventura è cominciata con uno spareggio con l’Ucraina: chissà dove sarei se lo avessi perso. Lo dico con grande onestà: non so quale sarà la mia vita dopo il Mondiale, ma sarà bella lo stesso”.

Ha voglia di tornare ad allenare un club?
“Sono due mestieri diversi e mi piacciono tutti e due. Nel club non puoi staccare un momento, in nazionale spesso concentri tutto in una settimana. Quale sarà il mio prossimo lavoro non lo so, oggi sono qui senza pensare a quello che potrà essere”.

È favore al Mondiale a cadenza biennale?
“No, giocarlo ogni due anni banalizza la competizione, ma la mia opinione, come quella di altri anche più importanti di me, non conta niente: prevarrà l’interesse della maggioranza. Ognuno ha il suo, ad esempio i miei interessi non solo quelli dei club, ma è questo è una dato di fatto”.

Ne ha parlato con Wenger?
“No”.

Il suo successore sarà Zidane?
“Sappiamo l’immagine che ha, ma ci sono tanti bravi allenatori per cui la nazionale, se non un obiettivo, può essere un’opportunità”.

Perché la Francia continua a sfornare talenti?
“Ci aiuta la situazione economica del nostro calcio: i club di League 1 fanno giocare ragazzi di 17 e 18 anni che quando arrivano a 20 hanno già esperienza a sufficienza per andare all’estero, dove tutti si fidano dei calciatori francesi perché credono nella formazione che hanno ricevuto”.

Attaccare è divertimento e difesa è sacrificio?
“È riduttivo. Un difensore a difendere si diverte, un attaccante no. In squadra non puoi avere 11 architetti né 11 muratori. L’importante è essere efficace quando non hai la palla come quando ce l’hai”.

Lei alla carriera cos’ha sacrificato?

“Non posso dire che il calcio mi abbia tolto qualcosa. È la vita che mi sono scelto, ho fatto di tutto per arrivare il più in alto possibile ma non mi viene proprio di chiamarli sacrifici. Il calcio non è un lavoro, lavora che si alza tutti i giorni alle 6 per sfamare la famiglia. Non sto dicendo che il pallone non sia una cosa seria, ma la realtà è che io non ho mai lavorato un giorno in vita mia”.

La Nations League può risarcirvi della delusione europea?
“Non si può cambiare quello che è successo, ma nemmeno bisogna minimizzare questa competizione: prima i trofei per nazionali erano due, adesso sono tre e ci sono quattro tra le migliori nazionali al mondo che cercheranno di conquistare questo”.

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