Diario da Kabul di Alberto Cairo: “In 31 sotto un tetto, temendo l’arrivo dei talebani”

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Kabul, 13 agosto

“Che hai fatto ieri?”, mi chiede Ali Jan, uno dei fisioterapisti del centro di riabilitazione di Kabul. “Le solite cose del giorno di riposo,” rispondo. Dormito un po’ di più, ginnastica, compere al mercato, scritto, letto, poltrito.  Era una giornata così tranquilla e luminosa che per qualche momento ho anche scordato quanto sta succedendo nel Paese.  

So bene che vuole gli chieda: “E tu?”. Lo faccio. “Sai quanti siamo in casa?”, domanda concitato. So che ha moglie e sei figli. “Trentuno. Parenti sfollati,” spiega, “scappati da Pulikumri, presa dai Talebani, e da Mazar, in bilico”.

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Ha il viso stanco. “Non è per il numero, dice, ci stringiamo e il cibo non manca; è per quello che raccontano. Sono fuggiti con niente, portando in spalla gli anziani fino a che non hanno trovato un’auto. Io a consolarli, restate quanto volete, casa mia è casa vostra, ma sono disperati. Vogliono andare in Pakistan, dicono che per noi, hazara-sciiti, non ci sarà pace mai in Afghanistan. Mia moglie ha cominciato a chiedere se non si debba partire tutti, da ieri è un gran piangere, non so che fare. E se cominciano a combattere in Kabul?”

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Vorrebbe lo consigliassi, convinto che io, straniero, abbia informazioni privilegiate. Da settimane è così ogni giorno. Tutti a domandarsi che succederà, preoccupati per la famiglia (per le figlie in particolare). Mi chiedono di raccomandarli alle ambasciate per un visto che li porti in salvo, lontano. Impossibile.

Sono molti in Occidente a dire che la guerra qui è colpa degli afghani, si arrangino a trovare strumenti di pace. Scordano che i più questa eterna guerra non la vogliono affatto, subiscono senza scelta, sognando invece solo un po’ di benessere e che i figli abbiano una vita migliore.

Intanto i pazienti stanno arrivando in gran numero, Ali Jan va ad accoglierli nel reparto di fisioterapia. Mi domando come lui e gli altri impiegati possano lavorare con un tale fardello sulle spalle.

E penso alle migliaia di sfollati disseminati per il Paese (meno fortunati degli ospiti di Ali Jan), senza denaro, costretti ad accamparsi in posti che nessuno vuole, senza acqua, all’aperto o in tende caldissime, affidati alla carità e agli umori della gente. 

Perché l’Afghanistan è ancora a questo punto?  Le ambasciate consigliano agli stranieri di partire in via precauzionale. Molti chiedono che farà la Croce Rossa. Lasciare ora con questo disastro umanitario? Restiamo.

L’autore è un fisioterapista e scrittore italiano, dal 1989 delegato del Comitato Internazionale della Croce Rossa in Afghanistan

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