Donald Trump, il voto contro il populismo

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Donald Trump è stato incriminato a Washington per aver tentato di rovesciare il risultato delle presidenziali del 2020 ma nulla osta alla sua ricandidatura e i sondaggi lo danno in testa nella corsa alla nomination repubblicana per la Casa Bianca 2024: è uno spettacolare corto circuito nella democrazia americana, frutto dell’ondata populista, e catapulta i singoli elettori nell’insolito ruolo di giurati.

I quattro capi di imputazione redatti dal procuratore speciale Jack Smith nei confronti di Trump sono cristallini: dopo la sconfitta nelle presidenziali del 3 novembre 2020, decise di rovesciare il legittimo risultato a favore di Joe Biden sollevando consapevolmente false accuse di brogli in Pennsylvania, Michigan, Arizona e Nevada. Il piano, organizzato assieme ad un ristretto gruppo di fedelissimi, fallì e Trump il 6 gennaio 2021 sostenne l’assalto a Capitol Hill nell’estremo tentativo di evitare la proclamazione di Biden presidente, trovando però l’ultimo insormontabile ostacolo nell’opposizione del vicepresidente Mike Pence.

Il copione del tentato colpo di mano contro la democrazia americana è di pubblico dominio e sul capo di Trump pendono altri 37 capi d’accusa per essersi portato nella propria residenza in Florida centinaia di documenti segreti della Casa Bianca ed ulteriori 34 capi d’accusa per aver pagato un’ex pornostar al fine di celare la relazione avuta.

Nonostante tutto questo non c’è però alcuna legge americana che impedisce a Trump di ricandidarsi alla Casa Bianca – nel 1920 Eugene Debs lo fece addirittura dal carcere – ed anzi l’ex presidente cavalca le incriminazioni come carta elettorale, con una strategia spregiudicata premiata dalla raccolta fondi e dai sondaggi che lo danno nettamente in testa nella corsa alla nomination repubblicana rispetto al rivale più accreditato, il governatore della Florida Ron DeSantis. “L’unica strada legale per impedire la rielezione poteva essere l’impeachment – spiega il costituzionalista Chris Edelson dell’American University a Washington – ma il Congresso lo ha respinto nel 2020 sull’abuso di potere e nel 2021 sull’incitamento all’insurrezione”. Se dunque in Brasile l’ex presidente Jair Bolsonaro è stato interdetto dalla vita pubblica per un periodo di otto anni a causa del ruolo avuto nell’assalto dell’8 gennaio alle sedi del governo di Brasilia dopo l’insediamento del successore Lula, la democrazia americana non ha una difesa analoga da un ex presidente protagonista di un simile comportamento.

Dunque, l’ultima e decisiva trincea per gli Stati Uniti è la scelta che faranno i cittadini quando andranno a votare. Anzitutto quelli iscritti al partito repubblicano che dai caucus dell’Iowa, il 15 gennaio 2024, dovranno scegliere a chi affidare la nomination del partito in vista dell’Election Day. Per Heidi Kitrosser, giurista dell’Università del Minnesota, “l’incriminazione rafforza Trump presso quella base di elettori che lo ritiene ingiustamente perseguitato”. Ovvero, dopo essere stato eletto nel 2016 cavalcando l’ondata populista contro i partiti tradizionali e dopo aver creato nel 2020 il falso mito della “vittoria negata”, Trump è diventato il leader di quegli americani che si oppongono alle istituzioni, non credono alla legge e considerano il governo federale come un avversario. Ciò significa che il populismo è vivo e vegeto nel profondo entroterra degli Stati Uniti – nonostante le sconfitte subite alle presidenziali del 2020 ed anche alle elezioni di Midterm del 2022 – è diventato ancora più estremo e trova nella candidatura del pluri-incriminato Trump alla Casa Bianca un momento di esaltazione, rafforzamento e possibile rilancio. Generando una delle sfide più drammatiche che la repubblica americana ha attraversato nei suoi 275 anni di vita. E poiché a decidere su Trump non saranno le leggi ma le urne l’ultima parola spetta agli elettori che si trasformeranno di fatto in giurati. Saranno loro, con la loro scelta, a esprimere l’unica sentenza che farà la differenza: consentire oppure bloccare l’estremo assalto di Trump ai valori della Costituzione. In un conflitto aspro, senza sconti né compromessi possibili, secondo la più rigida tradizione anglosassone. A confermare che questo è il terreno decisivo c’è una recente indagine Reuters/Ipsos secondo cui il 45 per cento degli elettori repubblicani non voteranno per Trump – e il 35 per cento lo faranno comunque – se dovesse essere condannato per aver commesso un reato penale.

Lo scontro dentro il “Grand Old Party” è in pieno svolgimento ed interessa anche chi americano non è: non solo perché in palio c’è il rischio del ritorno del populismo alla Casa Bianca – con le gravi conseguenze che avrebbe nei rapporti con gli alleati – ma soprattutto in ragione di quanto ci insegna sul tema della difesa di una democrazia dai suoi avversari più pericolosi, quelli interni. Quando il pericolo viene dal di dentro, attraverso leader o gruppi politici che violano ogni principio democratico facendosi abilmente gioco di leggi che disprezzano, l’ultima e unica protezione che resta per lo Stato di Diritto è la volontà dei cittadini. È infatti l’esercizio del diritto di voto che consente ad ogni elettore di essere protagonista e difensore della democrazia oppure di avallarne la più disinvolta liquidazione.

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