Dove porta il patto tra Roma e Berlino

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Il “Patto d’azione” tra Italia e Germania firmato oggi a Berlino dai due capi di governo, Scholz e Meloni, è un passo di notevole significato, come era chiaro ieri su Repubblica grazie alle anticipazioni di Tonia Mastrobuoni. Ma quali sono le sue ricadute sul piano interno, in un dibattito politico domestico che fatica a sollevarsi da una dimensione come sempre alquanto provinciale?

Le conseguenze sono almeno tre. Una riguarda la maggioranza, la seconda l’opposizione, la terza più in generale tocca le scelte del governo di destra-centro rispetto all’Europa. Cominciando da qui, è evidente che l’intesa con la Germania nasce nel solco di una continuità con Mario Draghi. L’ultimo aspetto per la verità non stupisce: dai primi passi dell’esecutivo, la politica internazionale si è svolta all’interno di una cornice classica che proprio il governo Draghi aveva rafforzato, anche nell’intento di far dimenticare la stagione di Giuseppe Conte. Così è stato per il sostegno all’Ucraina e di recente a Israele. Oggi arriva questa novità, preparata peraltro dal rapporto che la Meloni ha costruito nel tempo con Ursula von der Leyen, che pure FdI non ha votato come presidente della Commissione.

L’idea di fondo è che l’Occidente si realizza nella comunità euro-atlantica: quindi Nato e Unione europea, certo, ma al di sopra di tali strumenti deve esserci la consapevolezza di appartenere a una stessa comunità di valori democratici. Non si può dire che dall’opposizione Giorgia Meloni mostrasse simpatia verso questi principi. E anche oggi la freddezza sopravvive. Eppure, al di là di qualche reiterata contraddizione, imposta dalla necessità di non apparire totalmente incoerente, il “sovranismo” risulta assai annacquato. È il frutto del realismo, figlio di una convergenza di interessi. Il cancelliere socialdemocratico Scholz non avrebbe mai sottoscritto un Patto, come quello che si firma oggi, con un governo che condividesse la linea di Alternative (AfD). Del resto, la Meloni di un tempo si sarebbe ben guardata dall’accettare la Germania come interlocutore privilegiato nella Ue.

Secondo punto: i riflessi nella maggioranza. Di sicuro Salvini mastica amaro in quanto la Lega resta fedele al verbo del vecchio euro-scetticismo. Che si nutre di nazionalismo, quando non di localismo, e coltiva rapporti con tutti gli avversari di Bruxelles. A cominciare proprio dal partito para-nazista tedesco, appunto l’AfD appena citata. S’intende, l’accordo con i tedeschi non implica la fine della campagna elettorale per il voto di primavera in cui FdI e Lega saranno formalmente dalla stessa parte contro il fronte delle socialdemocrazie e dei liberali. Tuttavia adesso si è creata una griglia, un perimetro che definisce gli interessi comuni, compresa la gestione dei migranti: vedi soluzione albanese, a cui i tedeschi guardano con attenzione. Ne deriva che agli occhi di Salvini la premier ha ottenuto un successo sia d’immagine sia di sostanza. Si apre un nuovo capitolo nella relazione con l’Europa di cui Palazzo Chigi si gioverà, mentre Salvini resta un partner minore che cercherà la rivincita su altri capitoli dell’agenda.

Quanto al centrosinistra, il punto di fondo è che la destra di Giorgia Meloni cessa di essere “impresentabile”. Soprattutto dimostra di non essere isolata in Europa, come si è sostenuto per mesi. Le difficoltà non mancano e senza dubbio l’Italia continuerà a essere sotto osservazione a Bruxelles. Ma è un aspetto che rientra nella normalità. In altre parole, l’opposizione deve rivedere qualcosa nella sua politica europea. La competizione sarà tra avversari e non più rivolta a delegittimare a ogni passo il nemico ideologico. Alla Meloni il compito non semplice di non contraddirsi e di mostrarsi a suo agio in un europeismo critico, ma non distruttivo.

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