Draghi, un discorso che fa i conti con il passato tra responsabilità ed emozione

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Frasi brevi, nessuna metafora, una certa emotività a stento trattenuta, 51 minuti di densità repubblicana. Forse Mario Draghi è più a sinistra di quel che avevamo pensato, e che quel suo riferimento al socialismo liberale, di cui si disse debitore, agli insegnamenti di Federico Caffè, trovano nel suo discorso al Senato improvvisa concretezza. E poi il senso di colpa, per quel che la sua generazione ha prodotto, a differenza di quel che furono capaci i padri e i nonni nel primo Dopoguerra.

C’è una differenza con i leader del passato, da Renzi a Conte: il discorso è conscio del divenire della storia, fa i conti con il passato, a differenza dei populisti di sinistra e di destra che pensano che il mondo inizi con loro. Non c’è nemmeno biasimo per chi è venuto prima, Draghi ringrazia Giuseppe Conte, ne riconosce lo sforzo nella difficoltà data dalla pandemia, e naturalmente Mattarella, con cui la sintonia culturale è del resto totale. Insomma, Draghi si fa carico di questi errori. E mostra di coltivare il senso della memoria, e quindi il sentimento delle conseguenze: di quello che si farà e di quello che non si potrà fare. Nessuno in aula può dirsi scontento, tra i senatori pronti a votarlo in massa, tranne i 19 esponenti di Fratelli d’Italia. E se è di sinistra il senso della giustizia, è di destra il senso di dovere, l’etica del lavoro che dal discorso traspare. Suo padre, raccontò una volta Draghi nell’unica intervista concessa in vita sua a Die Zeit, gli disse che un uomo senza il lavoro non è niente.

Nel 1976 al suo primo incarico a Trento, professore universitario alla mitica facoltà di sociologia, dopo i cinque anni trascorsi negli Usa, Draghi, che aveva 29 anni, si trovò davanti gli studenti che reclamavano esami di gruppo. “Cosa intendete?”, chiese. E gli studenti: “Uno di noi risponde e lei promuove tutti”. “Ci sto – disse il professore – ma se chi risponde non sa le risposte, la bocciatura si estende in automatico a tutti”. Il secchione prescelto non seppe rispondere, e tutto il gruppo fu rimandato. La scena si ripeté per un paio di volte, finché gli studenti tornarono a presentarsi da soli.

Echeggiano espressioni che non si erano più sentite negli ultimi anni. Spirito repubblicano. Dovere della cittadinanza, che arriva prima di ogni nostra appartenenza. Il senso di colpa che impone di consegnare un Paese migliore e più giusto ai figli e ai nipoti. Cita Cavour e papa Francesco. Dedica passaggi alla povertà, nominando la Caritas, ricorda gli effetti economici del Covid, sulle donne, che in Italia lavorano e guadagnano meno che in Europa, (ma bolla le quote rosa come farisaiche). La visione che traspare è laburista, ambientalista. Il modo in cui abbiamo maltrattato il mondo ha prodotto il Covid. “Dobbiamo lasciare un buon pianeta, non solo una buona moneta”.

Uno che ha salvato l’euro potrà salvare l’Italia? Draghi è un leader freddo, e l’Italia è un paese emotivo. Funzionerà? La storia dirà se sarà all’altezza delle enormi aspettative da taumaturgo. Draghi non è l’arcitaliano, a cui gli italiani gridano “lasciamolo lavorare”, non è nemmeno una maschera della nostra Commedia dell’arte. Può essere una forza, ma anche un limite, alla lunga. Traspare in lui una certa alterità, ma non c’è nemmeno snobismo né saccenza, bensì una solidità borghese fatta di studi severi, responsabilità, etica del lavoro. Si è quel che si sa fare, sembra dirci.

Draghi è entrato in punta di piedi, ma questo aggiunge non sottrae al suo discorso. Quel che aveva da dire lo dice con chiarezza. L’ancoraggio all’Europa. All’Alleanza atlantica, alla sovranità condivisa. Un bel richiamo a chi, nella Lega, coltiva residui sentimenti nazionalistici perché “senza l’Italia non c’è Europa, ma fuori dall’Italia c’è meno Italia”. Tredici cartelle per il nostro premier numero 30, in 67 governi, per dire, infine, che tutti i partiti devono fare un passo avanti, se vogliamo cambiare il Paese, il nostro stare al mondo. Non sono ammesse diserzioni, perché “l’unità non è un’opzione, l’unità è un dovere”.  Non sarà un premier conciliante.

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