E’ morto Marvin Hagler, la boxe perde una leggenda

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La boxe perde una delle sue leggende. All’età di 66 anni è morto Marvin Hagler, improvvisamente, mentre si trovava nel New Hampshire. Lo ha annunciato la moglie, Kay Guarrera.

Raramente un alias ha descritto alla perfezione un pugile come quello dato ad Hagler: il ‘Meraviglioso’. Meravigliosa era la sua tecnica, meravigliosa era la sua forza di carattere sul ring, la capacità di tenere duro per arrivare ai vertici anche nei momenti di difficoltà. Mancino, potente e tecnicamente raffinato, determinato come pochi. La boxe ce l’aveva nel destino, probabilmente da quando, all’età di 13 anni, si trasferì con la famiglia a Brockton, città che era stata il quartier generale di un altro mito della boxe come Rocky Marciano, ed entrò nella palestra dei fratelli Petronelli.

Passato professionista nel 1973, dovette aspettare ben 6 anni e ben 49 incontri per battersi per il titolo mondiale. Una attesa incredibile, soprattutto se paragonata a quella di qualche pugile attuale che, anche per il proliferare delle sigle, ha la grande chance dopo pochi match. Quella chance Hagler la ottenne per il 30 novembre 1979, una data che lo scolpì nella memoria degli appassionati italiani. Contro Vito Antuofermo, il Paisà di Palo del Colle emigrato negli Stati Uniti, fu una battaglia selvaggia. Per molti addetti ai lavori, dopo 15 riprese senza soste, Hagler l’aveva spuntata, ma un finale commovente di Antuofermo, ridotto ad una maschera di sangue (gli furono applicati settanta punti di sutura al volto) convinse i giudici a dare il match pari, lasciando il titolo nelle mani dell’italiano che ne era detentore.

Ma l’appuntamento fu solo rinviato. Hagler quella corona se la prese di forza nel 1980 alla Wembley Arena di Londra, quando distrusse un inglese dagli occhi di ghiaccio, Alan Minter, che due anni prima con i suoi colpi aveva causato la morte del pugile di Tarquinia Angelo Jacopucci. In una notte intrisa di razzismo, molti aderenti al National Front, vedendo il loro pugile distrutto in tre round, scatenarono l’inferno lanciando sul ring una pioggia di bottiglie di birra ancora piene e qualcunque altra cose capitasse loro tra le mani.

Ma ormai il titolo era di Hagler. Ci mise tanto a prenderselo, ma quando ci riuscì se lo tenne a lungo e  senza mai tirarsi indietro di fronte a nessuno. Sette anni di regno e undici difese. Affrontò tutti i migliori, da Roberto Duran a Thomas Hearns (distrutto in tre round in uno dei match più belli di sempre) a John Mugabi, l’ugandese con il quale diede vita ad una sesta ripresa di elettrica violenza. Fino all’ultimo match, contro Ray Sugar Leonard. Quando i giudici diederò il verdetto a Leonard, si sentì defraudato e disse basta. E non tornò indietro, non sentì come tantissimi altri grandi, il richiamo della foresta. Restò nella boxe, ma solo in veste di commentatore. 

Amava l’Italia il Meraviglioso. Si era trasferito a Milano, aveva anche tentato la carriera cinematografica (il ruolo più conosciuto in un film di medio successo dal titolo Indio), la moglie era napoletana e lui si era persino appassionato al calcio: simpatizzava per la Sampdoria. E l’Italia amava lui. Come quando nell’ottobre del 1982 difese il titolo contro Fulgencio Obelmeijas al Teatro Ariston di Sanremo, un prodigio organizzativo di Rodolfo Sabbatini, il promoter romano che aveva stretto una collaborazione con uno dei grandi della boxe americana, Bob Arum. Il match iniziò alle 4 del mattino per permetterne la trasmissione in prima serata negli Stati Uniti, ma questo non scoraggiò nè il pubblico televisivo, nè tanto meno la folla che gremì il tempio della canzone italiana. Hagler, mancino ma straordinariamente completo, quel match lo vinse alla quinta ripresa con un gancio destro.

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