E se quell’abito fosse eterno?

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«Trattali bene», si è sentita raccomandare Cecilia, 16 anni, dalla ragazza che in piazza Duomo, a Milano, un pomeriggio di settembre le ha messo in mano un paio di jeans. Glieli aveva venduti online pochi giorni prima, per quattro euro: «Abbine cura», ha insistito passandoglieli, come se le stesse affidando un cucciolo. Non è un caso che in gergo gli abiti usati e poi rimessi in vendita vengano definiti pre-loved, già amati in precedenza: formula accattivante dal punto di vista del marketing, certo, ma a suo modo sincera.

Scelta obbligata dalla necessità nel Dopoguerra, gesto bohémien negli anni Settanta, più di recente passatempo per amanti del vintage in cerca di un pezzo cult. Fino a ieri pratica che necessitava di una discreta dose di anticonformismo, oggi, accantonati gli antichi imbarazzi, la compravendita di second hand prospera e dilaga trasversale. «Se indosso un abito usato e ricevo dei complimenti, faccio sempre notare la sua provenienza: serve ad abbattere gli stereotipi che vorrebbero il vintage come qualcosa di sporco e malandato, quando invece trovo sempre articoli in ottime condizioni», spiega Greta, 25 anni. Si tratta, in fondo, di un affare vantaggioso su più fronti. Dal punto di vista economico, ovvio; e poi è un modo da un lato per fare decluttering, dall’altro per scovare capi unici e pezzi vintage in un bacino potenzialmente sconfinato. Last but not least, la sostenibilità: comprare un pre-loved significa evitare la produzione di un capo nuovo e allungare la vita ai vestiti già esistenti. «Il fenomeno è un pezzo della revisione del nostro sistema di consumi, attualmente in corso», spiega Simona Segre Reinach, antropologa della moda e docente di Fashion Studies a Bologna. «Se in altri ambiti il singolo ha un raggio d’azione limitato, nella moda tutti possiamo fare la differenza da subito. Una filosofia vestimentaria che abbraccia il “non-inquinamento” e offre la possibilità di cambiare look senza intaccare le risorse del pianeta: a me pare una sfida sana e positiva».

Oltre che un business in crescita esponenziale: secondo un’indagine di ThredUp, colosso del settore, negli Stati Uniti, entro il 2028, questa nuova-vecchia moda supererà il fast fashion, raggiungendo un valore di mercato pari a 80 miliardi di dollari (contro i dieci del 2009). Quanto all’Italia, negli ultimi cinque anni il settore dell’usato in generale è cresciuto del 33% (fonte: Osservatorio Second Hand Economy/Doxa), mentre è attualmente in corso il primo grande studio indipendente sulla moda usata e vintage da parte di Dress ECOde, progetto di informazione e consulenza per un fashion più sostenibile. Come ogni mercato, anche questo è trainato dalla rivendita. Offline e online, un vero bengodi: «Da sempre sono una rovistatrice di bancarelle», svela Lisa, 41 anni, «ma ora, con siti e app dedicati, mi sto scatenando. L’altro giorno ho comprato un pellicciotto su Vinted, ma frequento anche Depop e MarketPlace».

Serve però sgombrare il campo da un equivoco: comprare second hand è una buona soluzione. Ma non è per tutti. Se alcune trovano affascinante frugare nei mercatini passando le mani tra pezzi di passato, altre provano disagio fisico nel farlo. Quanto alle compere online: richiedono competenza, gusto nella scelta, audacia e una certa tolleranza alla frustrazione, perché l’acquisto sbagliato è sempre dietro l’angolo. «I privati non possono permetterselo, ma un grande marchio come Zalando ha avviato la campagna Senza pensieri per la sua sezione second hand, inaugurando una politica di resi gratuiti e infiniti», dice Silvia Gambi, docente, formatrice e fondatrice di solomodasostenibile.it. L’idea di poter restituire aiuta, ma può non bastare. «Mi fa troppa fatica. Online non ho tempo né voglia di mettermi a spulciare, provare, rimandare eventualmente indietro», spiega Gabriella, 38 anni. «E poi i vestiti prima di comprarli li voglio toccare».

Dall’altra parte della barricata, fra le motivazioni forti di chi compra (e/o vende) usato, c’è la spinta green. Cristina, 24 anni: «Quando ero più piccola non mi piaceva l’idea. Mi sapeva di sporco. Poi ho capito cosa significa veramente: a monte c’è una selezione dei capi, in più ho scoperto che esistono persone che comprano abiti per non indossarli. E poi pian piano il seme dell’ecologia ha germogliato in me: ora la cosa mi esalta e non provo nessuna vergogna, anzi mi sento orgogliosa». Anche perché misurare (almeno a spanne) i vantaggi ambientali è possibile: in questo come in altri settori, si usa il metodo LCA (Life Cycle Assessment) che quantifica il risparmio di materie prime e quello di emissioni di C02. Certo: occhio al tragitto che fanno le merci. Spiega candidamente Lara: «Da 35 anni mi vesto second hand, dato che colleziono vintage. Ora vivo in Italia ma sono stata a lungo nel Regno Unito, e per i miei acquisti online scelgo eBay UK». Con buona pace del chilometro zero.

Secondo il report ThredUp, negli Usa il 37% dei ragazzi sotto i 24 anni ha comprato abbigliamento di seconda mano. Ma non capi fast fashion, i cui standard qualitativi li rendono spesso inutilizzabili per un secondo acquisto. Semmai, prodotti di lusso, anche per via del cosiddetto Instagram-Factor: i social impongono look sempre aggiornati e cool, presupponendo una capacità di spesa che molti, specie i giovanissimi, non hanno. Da qui, l’idea di vendere ciò che si è acquistato e investire quanto ricavato in un altro capo, perpetuando il meccanismo. Un po’ diverso dal sogno romantico di Valeria, 37 anni: «L’usato è per me da sempre una splendida metafora di vita: quello che per te è immondizia, per qualcun’altra è un tesoro. Ma anche una palestra per imparare a lasciare andare le cose. Dall’altro lato, quando sei tu a cercare: vuoi mettere la soddisfazione di scavare a mani nude in pile di stracci e portare alla luce un diamante?», continua. «Produciamo troppo, possediamo troppo, compriamo troppo. Del second hand adoro anche che sia democratico, accessibile a tutti. Anche se capisco che dietro, ormai, c’è anche una tendenza di marketing». Effettivamente la fetta di mercato è ghiotta, motivo per cui tanti brand stanno aprendo online, ma anche nei negozi fisici, una sezione dedicata. «Grande interesse, ampio margine di crescita: perché non metterci il cappello?», riflette Silvia Gambi. E infatti: «Il programma Levi’s SecondHand permette di restituire i propri jeans usati, che saranno riparati e messi di nuovo in vendita da Levi’s stessa. Maison Margiela ha avviato Recicla Line, collezione realizzata con abiti di John Galliano trovati in negozi vintage e riadattati dai creativi del brand. Gucci si è alleato con The RealReal per vendere online i propri capi di seconda mano».

Difficile, in questa giungla lussurreggiante, tracciare un identikit dell’utente-tipo: ognuno è un caso a sé. Carla: «Quando viaggio giro sempre i mercatini in cerca del capo unico. Con gioie che l’acquisto online non mi potrà mai dare». Paola: «Vendo molte cose mie usate ma non ne compro perché sono schizzinosa». Daniela: «Ho lavorato in un negozio second hand della mia cittadina: le signore bene portavano quintali di cose molto belle, quasi sempre nuove e di firme importanti, ma non volevano fossero esposte in vetrina per non “sfigurare” nel loro ambiente».

Al netto della passione comune per il vintage, e cioè il presupposto da cui siamo partiti, è l’autenticità la chiave di tutte le esperienze che ci fanno stare meglio. Se manca quella, la magia svanisce. «Il mio timore è che il cosiddetto upcycling, il riuso di un oggetto volto ad aumentarne il valore, diventi il nuovo mantra dei brand, che lo renderanno un altro modo di raccontare quanto si impegnano per salvare il pianeta, mentre è solo marketing», conclude Gambi. Per fortuna resta aperta una quantità di canali spontanei: dalla compravendita fra privati al puro swapping, lo scambio. «In ufficio abbiamo messo in piedi il “circolo del riciclo”», riflette soddisfatta Francesca, 46 anni. «Siamo donne con taglie, età, famiglie e possibilità diverse. Quando qualcosa che è ancora bello non va o piace più, lo portiamo alle altre. Che, se lo gradiscono, senza vergogna o falsi pudori se lo prendono». For free, ma questa è un’altra storia.

Foto Nina Röder 

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