Eugenio Scalfari re di cuori. Rose rosse dal mio direttore

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Ultranovantenni quasi coetanei, siamo stati, lui ed io, l’ultimo legame, la memoria tra l’oggi e quel giorno indimenticabile, il 14 gennaio 1976, quando il primo numero di Repubblica piombò su una Italia di speranze disordinate, che senza saperlo già l’attendeva, tanto da innamorarsene subito come fosse una spinta di giovinezza. Siamo rimasti tra quelle pagine per decenni, lui il fondatore, l’editore, il direttore, l’opinionista internazionale, io la cronista multitasking e poi, pensionata, la collaboratrice di varia umanità, accerchiati da sempre più giovani giornalisti, che in quel nostro ’76 non erano neppure nati e nei decenni si sono sempre incantati di quel Maestro che non si piegava ad alcuna frana ideologica e politica e che scriveva in modo così seducente.

Se io mi permetto di accomunarmi a Eugenio Scalfari, è perché questo momento di perdita, di fine, di buio, mi è particolarmente doloroso: non c’è più il mio Direttore che mi offrì, 46 anni fa, l’occasione della mia vita, non c’è più uno degli ultimi, e non è che ne siano rimasti molti, grandi democratici che la televisione si è concessa, e c’è invece, solo per me che in fondo a me ci tento, il monito di non farla tanto lunga, non c’è più spazio di vita, non c’è più tempo. Per il suo nascente quotidiano, Scalfari riunì una buona parte di possibili redattori del Giorno, un quotidiano che era stato grande col suo direttore ex partigiano Italo Pietra, e adesso ci rendeva sempre più nervosi con il nuovo, quel Gaetano Afeltra che, adorato dalla buona borghesia lombarda, non si era accorto che il mondo cambiava. Eravamo disperati, così, quando quello che aveva inventato e diretto l’Espresso ci offrì questa nuova avventura, lo ascoltammo dire: noi abbiamo denaro per tre anni, se ce la faremo si andrà avanti, se no no. Alcune firme con famiglia non se la sentirono di affrontare l’ignoto, ma zitelle e zitelloni avremmo fatto qualsiasi cosa pur di fuggire dall’amalfitano.

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Dopo tre anni il giornale era diventato l’indispensabile foglio chic da mostrare dalla tasca della giacca per i maschi e per noi femmine sventolarlo alle riunioni femministe a teatri pieni. La direzione di Repubblica era già da allora romana, e nella nostra redazione milanese si viveva l’assenza di Scalfari come una comodità, ma ancor più come una diminuzione, da una parte ci sentivamo liberi anche di dar poco retta al caporedattore locale, dall’altra ci mancava il suo sguardo sia di approvazione che di rimprovero. Li bramavamo ambedue, soprattutto noi signore cui da Roma arrivavano mazzi di rose rosse per certi articoli laggiù approvati, che ci procuravano una specie di batticuore che però dovevamo rinnegare per parità che allora non si chiamava di genere.

Erano tempi quelli in cui, pur essendo donne tutte di un pezzo, avevamo ancora quel vizio riprovevole di natura patriarcale per cui dai superiori, dai capiufficio, dai dirigenti, dai segretari di partito, da un direttore di giornale, si pretendeva la promozione più richiesta, quella di attirare la di lui attenzione con i soliti trucchi della tradizione femminile. Figuriamoci Scalfari, il massimo dei direttori di giornale, che quando era deputato socialista e senza barba, non suscitava, mi dissero veri brividi, divenne bellissimo quando si fornì di barba e folta capigliatura grigia e poi bianca, con quella figura grande e belle giacche, e una voce, una voce… E lo sguardo? E il sorriso? E i discorsi? E la cultura? E i segretari di partito in ginocchio? E l’occhiolino delle amanti dei segretari di partito?

Alla redazione di Milano niente, le sue visite erano così fulminee che per quel che mi risulta, qui si evitarono drammi o anche solo sospiri. A Roma si muoveva una folla di giornaliste donne, che essendo ancora un po’ una novità, erano quasi tutte giovani e belle, tanto che la nostra redazione (la prima, l’altra non so) divenne una fucina matrimoniale, perché allora l’inviato anche di guerra aveva ogni opportunità di distrarsi, ma è ovvio che se stai ore e ore chiuso in un ufficio, più di notte che di giorno, qualcosa succede. Quando mi capitava di andare Roma, davanti alla porta chiusa dell’ufficio di Scalfari, si aggiravano le colleghe ansiose di essere ricevute e tra di loro l’aria sospetta di gelosia.

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Non vorrei fare gossip, ma quando alla redazione di Milano arrivò una bella segretaria mora, si sussurrò che passando lei le giornate a trafiggere con gli occhioni innamorati l’ufficio del direttore, si era dovuto per qualche mese spostarla nella fredda anche sentimentalmente città del Nord. Certo se ne parlava e non so se per invidia, tra femmine si criticavano aspramente le colleghe che, troppo facile, illanguidivano per quell’uomo molto glamour, anche certe dame del bel mondo, infastidendolo e facendogli perdere tempo prezioso: così la pensavamo noi per togliergli ogni responsabilità. Proprio in quei primi anni di Repubblica erano arrivate le leggi sul divorzio, le famiglie saltavano allegramente, le donne si riprendevano la libertà, forse separarsi non era più una disgrazia ma una vera sciccheria: a meno di non essere un personaggio di fama e allora non potevi permettertelo, come Indro Montanelli che aveva una moglie a Roma e una a Milano.

Il nostro direttore invece è sempre stato di grande eleganza e lungimiranza e democrazia, in politica e nei sentimenti, e forse per questo le donne della sua vita sono state, sono, intelligenti, generose, prudenti: un uomo così va rispettato, non puoi fargli scenate, amareggiarlo, soprattutto perderlo. Così da fuori, ammirandoli tutti anche le figlie, Donata ed Enrica, Scalfari ci ha dato anni fa e poi sempre, l’ennesima lezione di civiltà. Mi piace, spero piaccia a molti, ricordarlo anche in amore, persino con un po’ di malizia, per liberarlo dal nostro lutto. A presto, ma non tanto.

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