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Europei, Marco Rossi: “Gli ungheresi sono nazionalisti, ma lo sport è strumentalizzato”

BUDAPEST – Alle sette della sera dopo, Marco Rossi si è infilato una t-shirt leggera e un bermuda di jeans come un ungherese qualunque, cioè esattamente quello che si sente (sa) di essere: uno come tutti gli altri, anche se il telefono continua a squillare (“Good evening, mister President!”: ma non è Orban, è il numero uno della Federcalcio) e la gente che passa saluta, sorride, ringrazia, di rado chiede una foto. Il suo appartamento s’affaccia sul Danubio (lui lo chiama Duna, all’ungherese), da dove arrivano minimi refoli di fresco che non riescono a mitigare la fornace in cui Budapest in questi giorni è attanagliata. Ma lui ha ancora tanta di quell’adrenalina addosso (“La notte dopo la partita avrò dormito un quarto d’ora”) che neanche se ne accorge, mentre è perfettamente consapevole che dopo l’attenzione internazionale di questi giorni tornerà a essere qualcuno solamente qui, solamente nella sua Budapest, di cui presto potrebbe sarà cittadino a tutti gli effetti: gli hanno offerto il passaporto ungherese.

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Domenica prossima partirà per Torino per passare due giorni in famiglia: “Per colpa della pandemia, non vedo mia mamma e mio fratello dal dicembre del 2019”. Poi farà due settimane di vacanze in Sicilia. “Le ferie le faccio sempre in Italia: me la godo, perché tanto nessuno mi riconosce”. Chissà però adesso che stava per scuotere l’Europa e che con la sua piccola Ungheria con il cuore in mano ha scritto la storia più emozionante dell’Europeo, anche se è mancato il lieto fine.

Cosa le rimane addosso, Rossi: la delusione, il rimpianto, l’orgoglio?

“In vita mai non avrei nemmeno immaginato di partecipare a un Europeo, figuriamoci di essere dispiaciuto per un pareggio a Monaco con la Germania. Però sì, mi è rimasto quello: il dispiacere. Vuol dire che abbiamo fatto bene il nostro lavoro”.

La piccola Ungheria stava per sopravvivere al gruppo del morte.

“Spesso non ci citavano nemmeno, sembrava solo una questione tra quelle tre. Ma anch’io avevo paura di fare zero punti a casa nostra, davanti ai nostri tifosi, visto il girone che ci era toccato in sorte: potevamo prendere un’imbarcata terribile. Invece la squadra ha dimostrato disponibilità, carattere, coraggio. Se ho un rimpianto, è il sorteggio: in qualunque altro gruppo probabilmente ci saremmo qualificati”.

E adesso?

“Vorrei provare quantomeno ad andare al Mondiale. La federazione mi ha dimostrato fiducia rinnovandomi il contratto fino al 2025: mi dà il tempo di pianificare”.

Ha colpito la grande partecipazione emotiva degli ungheresi: se l’aspettava?

“Sì, perché è un popolo passionale”.

E lei si aspettava questa improvvisa esplosione di notorietà?

“È la notorietà dei fuochi di Ferragosto: durerà una notte. Ma non è un problema per me, quando torno in Italia vivo benissimo proprio perché nessuno sa chi sono”.

In Ungheria, invece?

“Qui più che fama è apprezzamento. È quasi come se mi avessero adottato. A volte nei dibattiti televisivi si parla degli allenatori e se qualcuno mi cita c’è sempre un altro che gli risponde: Marco Rossi non è straniero, è ungherese”.

Questa fierezza l’ha maturata adesso?

“No, è una storia che ho già raccontato e che risale alla mia adolescenza, quando mio nonno  mi recitava le formazioni e le imprese del Grande Torino e della mitica Honved mentre mi accompagnava al Filadelfia per gli allenamenti. Qualcuno magari fraintende, ma per me allenare questa nazionale ha un’altra valenza, è un discorso mio, intimo, particolare. Non è come se allenassi, dico per dire, l’Austria o la Svizzera o l’Albania. Oggi non sono felice per una questione di rivalsa personale, è proprio orgoglio. Sono cresciuto con due miti come il Grande Torino e la Honved e ho giocato nel Toro, vinto lo scudetto con la Honved e allenato l’Ungheria. Forse è difficile capire quello che sto provando”.

Ma se domani la chiamassero dall’Italia offrendole una panchina che conta?

“Non è un discorso che mi interessa, non ho velleità di essere considerato chissà chi in Italia. Preferisco essere considerato come uno che dato un’impronta al calco ungherese. Sinceramente sono ormai tanti anni che sono via dall’Italia, non mi fa più tanto effetto”.

E che effetto le ha fatto confrontarsi con due allenatori campioni del Mondo e uno campione d’Europa?

“Mi è piaciuto considerarmi loro collega per 90′. Però ci collega abbastanza poco, per usare un gioco di parole. Facciamo lo stesso lavoro, tutto lì. Però devo dire che Deschamps è stato molto carino, mi ha fatto un sacco di complimenti, mi ha detto che eravamo messi benissimo in campo e che per loro è stata dura”.

Quando ha capito che qualcosa stava cambiando?

“Dopo la partita con il Portogallo: ne avevamo presi tre, eppure quando siamo usciti dallo stadio con il pullman abbiamo trovato un mare di gente ad applaudirci. Lì i ragazzi hanno percepito cosa stava succedendo, ma già prima li avevo martellati abbastanza, ripetendo loro che avevano tutto un paese dietro e che non con i risultati, ma con le prestazioni, avrebbero potuto rappresentare lo spirito ungherese”.

Questa retorica nazionalista non ha finito per diventare eccessiva, finendo per esaltare il sovranismo di Orban?

“Gli ungheresi sono molto nazionalisti e su questo non ci piove, ma lo sport è stato strumentalizzato a livello politico: certe accuse che ci sono piovute addosso non le meritavamo”.

Ad esempio perché non vi siete inginocchiati contro il razzismo e non vi siete schierati contro l’omofobia?

“Abbiamo scelto di manifestare in un altro modo, indicando la scritta Respect che la Uefa fa mettere sulle divise. Noi abbiamo rispettato tutti”.

Ronaldo ha subito cori omofobi, però.

“Se è così, è stato sbagliato, ma lui è un grande campione che può essere indisponente: non è che tutte le volte che cadi per terra ti devono fischiare fallo anche se nessuno ti ha toccato. Il rigore che si è preso contro di noi era molto, ma molto dubbio, eppure lui ha esultato come se avesse fatto gol al 90′ in una finale, non come se avesse arrotondato il punteggio contro una squadra molto più debole della sua. In più ci ha messo una mimica facciale indisponente, chiaramente rivolta al pubblico. Alla gente questo ha dato fastidio”.

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La nazionale è un veicolo di propaganda per Orban e Orban continua a lanciare messaggi poco democratici: come si pone di fronte a questa considerazione?

“Non voglio entrare nella diatriba, perché qualunque cosa dicessi verrebbe strumentalizzata in un senso o nell’altro. Preferisco rimanerne fuori. Non viviamo sulla luna, ognuno ha le proprie idee e chi mi conosce sa le mie. Ma io posso dire che il rispetto lo si dimostra con i comportamenti più che con i gesti. Io rispondo per me e non mi sento in difetto nei confronti di niente e di nessuno. E vi assicuro che la gente ungherese ha rispetto di qualsiasi minoranza”.

Che rapporto ha con Orban?

“Ogni tanto mi manda un messaggio. Lo ha fatto anche l’altra sera per congratularsi. Lui di calcio se ne intende, ha giocato da attaccante e ne sa anche a livello di tattica, non è uno sprovveduto, non ragiona da tifoso. Ma da lui non ho mai ricevuto nessuno tipo di pressione, come nemmeno dal presidente della Federcalcio, che è una persona che in Ungheria ha una grande influenza: ho la sensazione che mi lascino lavorare perché hanno grande fiducia in me. Invece la stampa di pressioni ne fa eccome: se convoco uno sbaglio, se non lo convoco idem. Non ci faccio caso”.

Pensa che dopo questo Europeo il calcio ungherese cambierà?

“Come atteggiamento di sicuro. Il movimento intero deve riguadagnare fiducia, quando sono arrivato io si perdeva con Andorra e Lussemburgo, avevamo un complesso di inferiorità. I grandi nomi ci mettevano paura. Ricordo che quando giocammo in Croazia un difensore, Kadar, s’impappinò solo perché aveva davanti Modric, che gli portò via il pallone e segnò. La maggior parte dei miei ragazzi vengono dal campionato ungherese e certi nomi li mettevano in soggezione. Ma le cose stanno cambiando”.

In che modo?

“Se non sei ricco di talento, bisogna compensare attraverso l’organizzazione, lo studio dei dati, il lavoro mentale: è questo che può colmare in maniera almeno parziale il gap tecnico. Tutti dicono che bisogna giocare col cuore e noi quest’Europeo l’abbiamo fatto col cuore in mano, ma senza organizzazione, senza sapere a chi dare la palla o quale spazio chiudere, non saremmo andati da nessuna parte”.

Lei dà molta importanza alla preparazione psicologica, vero?

“Ho voluto un mental coach, viene dalla Transilvania, che è Romania, ma che etnicamente è una regione ungherese. È molto importante l’analisi del profilo psicologico dei giocatori, bisogna avere chiaro in mente che tipo di personalità hanno e di che tipo di comunicazione, hanno bisogno, perché c’è quello con cui meno parli meglio è e l’altro cui devi stare sempre addosso. Vi faccio un esempio”.

Prego.

“Abbiamo un bel centrocampista, Siger, che gioca nel Ferencvaros: è uno molto tattico, intelligente, sa tenere la posizione. Fisicamente era un po’ giù, però nell’ultimo quarto d’ora contro il Portogallo l’ho messo in campo: mi serviva che schermasse la difesa, la cosa che sa fare meglio. Invece è stato un disastro. Il problema è che mentalmente non c’era, era psicologicamente stremato. Infatti il giorno dopo l’ho chiamato nel mio ufficio e gli detto: anche se il Ferencvaros ha già ricominciato la preparazione, vai con la famiglia a farti due settimane di vacanza, stacca il cervello, perché con la testa non ci sei. E se non stacchi e non ti rigeneri, la prossima stagione sarai un disastro”.
 

Quindi lei si sente più psicologo che stratega?

“Penso che Allegri abbia ragione: il calcio è una materia semplice e a complicarla troppo si fanno dei danni. Noi lavoriamo sui video, sui dati, ma anche in quello c’è sempre qualcosa che tocca la sfera motivazionale. Il mio obiettivo è che questo approccio, in Ungheria, venga sviluppato nelle fasce di età sensibili, sto lottando perché la federazione assuma almeno tre mental coach non per seguire i ragazzini, ma per aiutare gli allenatori a rapportarsi ai giovani. Qui appena si riconosce un talento c’è la tendenza a coccolarlo, e si rallenta la crescita. È per queste stagioni che a volte rimpiango di non lavorare in un club, perché questi argomenti li potrei sviluppare più in profondità”.
 

In nazionale non riesce?

“Devo essere più calmo, più pacato, più riflessivo. Facendo il lavoro del ct hai proprio la sensazione che i giocatori non siano tuoi, ma che ti vengano affidati in cura. E quindi è giusto rispettare e assecondare le loro abitudini, anche se magari non le condividi. Stiamo almeno cercando di essere più incisivi sull’aspetto fisico”.

Ovvero?

“Monitoriamo tutti i parametri e a chi ne ha necessità assegniamo un lavoro fisico di compensazione da svolgere nel proprio club. Se non notiamo miglioramenti nella performance e nei dati, capiamo che si tratta di uno che non ce la mette tutta e che quindi non è il caso di puntare su di lui”.

Adesso che li ha visti da vicino, chi tra Francia, Portogallo e Germania farà più strada?
“Il Portogallo deve per forza giocare col centrocampo a tre, se vuole supportare Ronaldo:  Renato Sanches non può stare fuori. Ma è la Francia a essere davanti a tutti, perché Mbappé è immarcabile. Quando gioca con squadre come la nostra fa fatica perché non ha spazi, ma quando gli concedono dieci metri è letale. Sarà lui a spostare gli equilibri”.



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