Facebook annuncia: un miliardo di dollari per le news nei prossimi tre anni. I dettagli dell’accordo con l’Australia

Pubblicità
Pubblicità

Nell’attesa di capire chi abbia davvero vinto nella sfida tra il governo australiano e Big Tech – secondo Joshua Benton del Nieman Lab di Harvard non ci sono buoni e cattivi, ma solo una gara a chi è più cattivo – un primo risultato concreto è stato raggiunto: Facebook, per bocca del vicepresidente degli Affari Globali Nick Clegg, ha annunciato un piano di investimenti da 1 miliardo di dollari nel prossimo triennio a sostegno dell’editoria mondiale, che si aggiunge ai 600 milioni già spesi dal 2018 a oggi.

Ma come funziona l’accordo che permetterà ai cittadini australiani di tornare a leggere e condividere i link dei siti di informazione su Facebook? Che cosa ha spinto il social network di Mark Zuckerberg a tornare sui suoi passi dopo la clamorosa decisione di bloccare i contenuti giornalistici? La risposta immediata è che l’Australia ha accolto alcune delle richieste del social network, accettando di modificare la legge e rendendola meno svantaggiosa per la Silicon Valley. Ma per capire come si è arrivati a questo compromesso serve fare un passo indietro e ricapitolare quanto accaduto nell’ultimo anno.

Australia vs Big Tech

Da alcuni mesi il governo e il parlamento australiano hanno avviato un iter legislativo per obbligare i giganti della rete, a cominciare da Google e Facebook, a remunerare gli editori che producono i contenuti condivisi sui social media o rintracciabili sul motore di ricerca. Si tratta di un percorso analogo nelle finalità ma differente nel modus operandi di quello avviato nell’Unione Europea con la cosiddetta direttiva copyright.

In sostanza, l’Australia ha stabilito che Google e Facebook debbano stipulare accordi commerciali con gli editori australiani, capitanati dal tycoon televisivo Rupert Murdoch, in cambio della condivsione dei link alle notizie disponibili sulle due piattaforme. Se l’accordo non viene raggiunto, dice la legge, lo Stato attiva una sorta di arbitrato che ha il compito di comporre la disputa e fissare il prezzo ritenuto equo.

Australia e Canada contro i colossi del web, ma a Facebook conviene riaprire la trattativa

Contro questa impostazione si sono battute le due società della Silicon Valley, sostenute anche dal governo statunitense che ipotizzava violazioni dei trattati commerciali internazionali e limitazioni della libertà d’impresa. Mentre l’approvazione definitiva della legge si avvicinava, nelle scorse settimane Google ha cominciato a stipulare accordi con i diversi editori, per evitare che si materializzasse lo spauracchio dell’arbitrato. Sembrava una vittoria del governo di Canberra e dell’industria dei media, ma Facebook – in una sorta di partita di poker – ha deciso di rilanciare, mettendo in pratica l’avvertimento dei mesi precedenti, quando la società di Menlo Park aveva annunciato che, se la legge non fosse stata emendata, sarebbe stata costretta a bloccare le news sulla piattaforma in tutto il territorio australiano.

Così, da un giorno all’altro, milioni di utenti non hanno più avuto la possibilità di aprire o condividere i link dei principali siti di informazione, ma anche di alcuni servizi pubblici essenziali, in conseguenza di un intervento tecnologico troppo pesante, per il quale Facebook stessa ha ammesso l’errore, rimediando. Sembrava l’atto finale di un muro contro muro che avrebbe potuto cambiare per sempre la struttura di Internet, basata sulla gratuità e la disponibilità del link, come ha sottolineato l’inventore del World wide web, Tim Berners Lee.

La mossa di Facebook

Invece, dopo alcuni giorni di trattative proseguite lontano dai riflettori, Facebook ha annunciato il passo indietro: la legge è stata modificata e quindi la condivisione delle news verrà ripristinata. In particolare, Zuckerberg ha ottenuto l’affermazione di due principi ritenuti irrinunciabili: il primo è che potrà scegliere gli editori con i quali stipulare accordi commerciali, compresi quelli minori e locali. Il secondo è che, dimostrando di aver sostenuto con fondi e iniziative il giornalismo, le piattaforme digitali potranno sfuggire al temuto arbitrato statale. La legge dunque rimane, stabilendo il principio che gli editori vanno pagati, ma viene spuntata l’arma considerata più pericolosa da Big Tech, in quanto avrebbe potuto innescare una reazione a catena obbligando i colossi a risarcire milioni di questuanti in tutto il mondo e a farlo con un prezzo deciso da terzi, cioè dalle autorità governative.

Quello che premeva a Facebook era ribaltare un concetto ritenuto fuorviante e sbagliato, che stava alla base della prima stesura della legge e cioè l’idea che il social network sfrutti i contenuti editoriali per il proprio business. Questa interpretazione è sempre stata contestata da Menlo Park: sono gli stessi editori a scegliere liberamente Facebook come piattaforma di condivisione dei propri contenuti, ricevendone in cambio traffico sui propri siti e quindi ricavi pubblicitari (la stima fatta da Facebook per il mercato australiano è di 5 miliardi di clic indirizzati ai siti di news nel solo 2020, per un valore economico di 407 milioni di dollari australiani finiti nelle casse dell’industria dei media).

L’obiezione degli editori, sostenuti da un’alleanza di governi che oltre all’Australia annovera già il Canada e numerosi stati europei, è che in regime di monopolio non ci sia alternativa alla condivisione dei contenuti su Facebook e che Facebook stessa, grazie anche ai link sulle notizie, alimenti il proprio modello di business basato sulla permanenza degli utenti sulla piattaforma, sulla loro profilazione e sulla “vendita” dei clienti agli inserzionisti.

Tutti vincitori, nessun vincitore

La vicenda in realtà dimostra che l’interesse tra i contendenti è quello di trovare un compromesso. I governi vogliono affermare il principio che i giganti del web, pur essendo strutture sovra-nazionali, devono sottostare alle leggi e alle regole stabilite democraticamente dai singoli stati. Gli editori, che negli anni hanno visto assottigliarsi i propri ricavi affrontando una crisi strutturale senza precedenti, vogliono che Big Tech risarcisca almeno in parte i mancati introiti, non come beneficenza ma sulla base del riconoscimento di un valore del prodotto giornalistico.

I colossi digitali hanno interesse a offrire ai propri utenti un servizio completo dal punto di vista qualitativo e quantitativo e sanno di non poter rinunciare alla presenza delle news, ma nel contempo non accettano leggi capestro che possano limitarne la libertà d’azione commerciale e il ridimensionamento del proprio modello di business. Quello che sta succedendo in Australia, allo stato attuale dei fatti, sembra accontentare tutte queste esigenze. Ma l’equilibrio è fragile e la sensazione è che la partita sia destinata a continuare, su altri tavoli e ad altre latitudini.

Pubblicità

Pubblicità

Go to Source

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *