Ferrovie, strade e porti: il Sud dimenticato che ora spera nel Recovery Plan

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LO SAPEVATE che esistono un’Alta velocità ferroviaria vera e una finta? O, detto in altri termini, una di serie A e una di serie B? Nella prima i treni corrono a 300 chilometri l’ora, con possibilità di raggiungere i 350; nella seconda arrivano a malapena a 200. La prima è già una realtà nel Centro-Nord e in una parte della Campania. La seconda è per ora il progetto immaginato per il Mezzogiorno sulle tratte Salerno-Reggio Calabria e Taranto-Potenza-Battipaglia, e consiste in un semplice riadattamento di linee tradizionali già esistenti. Due pesi e due misure, dunque.

Quando l’esecutivo guidato da Giuseppe Conte presentò in gennaio il suo Piano nazionale di ripresa e resilienza, ossia lo strumento attraverso il quale l’Italia potrà accedere alle risorse del Recovery Fund europeo, molti si accorsero subito che al Sud e alle Isole era stato attribuito un ruolo diciamo pure secondario sul terreno già molto carente e dissestato delle infrastrutture. A cominciare da quelle di trasporto. E ciò a dispetto delle stesse indicazioni europee, che ci invitavano e ci invitano a spendere di più per lo sviluppo delle nostre zone svantaggiate. Ma non era solo la rinuncia alla costruzione ex novo di una rete ferroviaria superveloce nel Sud a far gridare allo scandalo. In quel piano, solo parzialmente corretto nelle settimane seguenti, c’erano anche pochissimi accenni alla logistica e alla portualità meridionale, mentre si parlava diffusamente dello sviluppo dei due porti settentrionali di Trieste e Genova; scomparivano quasi del tutto le Zone economiche speciali, che avrebbero dovuto già da tempo beneficiare di incentivi fiscali e di semplificazioni amministrative; si sottovalutava l’esigenza di collegamenti decenti tra le città del Mezzogiorno e di quelli all’interno della Sicilia; c’era poco o nulla sui progetti di manutenzione.

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Nell’elencare, una dopo l’altra, tutte le dimenticanze del piano che ora Mario Draghi si propone di rifare da capo, la Fondazione PERProgresso Europa Riforma – parla nella sua ultima analisi di “Italia divisa in due”, di interventi “non solo insufficienti ma addirittura dannosi”. Altro che Mezzogiorno piattaforma d’Europa nel Mediterraneo, come prevedevano, all’inizio del nuovo millennio, i piani dei grandi corridoi multimodali, destinati a collegare verticalmente il Nord e il Sud dell’Unione. Altro che asse Berlino-Palermo, altro che strada-ferrovia-traghetto tra Bari e l’Est europeo. Ogni idea di sviluppo integrato è rapidamente svanita per una semplice ragione: negli ultimi vent’anni nessun investimento infrastrutturale al Sud è stato realizzato in una logica di rete tra i diversi vettori di trasporto: autostrade e ferrovie, porti e aeroporti. Il massimo che abbiamo avuto è stata una serie di opere scoordinate tra loro, legate più alle esigenze di singole aree e di singoli settori che ad una visione di insieme, a una logica di sviluppo nazionale e continentale.

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Ma non è stata solo la capacità di programmazione a fare acqua da tutte le parti. Il crollo degli investimenti ha messo per lunghi anni una pietra sopra qualsiasi efficace ammodernamento delle reti infrastrutturali del Sud. Quel crollo ha investito per la verità tutta l’Italia ma ha penalizzato in misura ancora più drammatica il Mezzogiorno, dove ogni anno in media tra il 2008 e il 2016, secondo Bankitalia, la diminuzione è stata del 3,6%, mentre tra il 2011 e il 2016 il numero di progetti per lavori pubblici è sceso del 40,6%, contro il meno 33,5 del Nord-Ovest e il meno 12,3 del Nord-Est. In queste condizioni, le infrastrutture del Sud, con alcune sporadiche eccezioni, sono rimaste al palo e non sono riuscite a recuperare, se non in pochi casi, lo svantaggio accumulato rispetto al resto del Paese.

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Fanno impressione, in particolare, i ritardi della rete ferroviaria meridionale che, secondo l’ultimo rapporto dell’Ance, l’Associazione nazionale dei costruttori edili, non solo ha un numero di chilometri (ogni mille di superficie territoriale) ben inferiore a quella del Nord (45 contro 63), ma nei livelli di accessibilità, ossia nella facilità o meno di raggiungere quella infrastruttura, si trova agli ultimi posti in Italia e in Europa.  A preoccupare c’è poi l’aspetto qualitativo, dove le linee meridionali presentano un grado di lampante arretratezza: meno del 50% è elettrificato (contro l’80 del Nord) e soltanto il 51% è a doppio binario (contro il 60 della media nazionale). Quanto all’Alta velocità, solo la Campania ne beneficia, con il 10,4% della sua intera rete ferroviaria. E mentre al Nord il calo dei collegamenti giornalieri con Espressi e Intercity (scesi dai 167 del 2002 ai 101 del 2017) è stato più che compensato dall’aumento degli Eurostar ad Alta velocità (da 63 a 276), al Sud questa compensazione non è avvenuta, cosicché il numero totale dei collegamenti quotidiani è sceso. Con il risultato che aree ancora più ampie del Mezzogiorno sono rimaste senza treni.

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La risposta principale che il Piano nazionale di ripresa e resilienza ha finora dato alle criticità della rete ferroviaria meridionale, si chiama Avr, Alta velocita di rete, e consiste – come si diceva – in un progetto di riadattamento delle linee già esistenti. A cominciare da quella Salerno-Reggio Calabria: secondo uno studio di Francesco Russo, professore di Ingegneria dei Traporti all’Università di Reggio Calabria, limitarsi a portare a 200 chilometri orari la velocità su quel tratto ferroviario, permetterebbe di avere un risparmio di tempo di soli venti minuti. Al contrario, creare una nuova linea ad Alta velocità come quelle già costruite nel Centro-Nord consentirebbe di viaggiare da Roma allo Stretto in non più di tre ore. Senza contare gli effetti sul Pil: secondo uno studio dell’Università di Napoli, a cura di Ennio Cascetta, le città italiane dotate di stazioni per l’Alta velocità da 300 chilometri l’ora hanno visto crescere il prodotto interno lordo nel decennio 2008-2018 del 7-8% in più rispetto alle altre. Vedremo se il nuovo governo avrà la volontà e le risorse per costruire anche nel Sud una rete altrettanto rapida e fruttuosa. Per adesso, la realtà resta quella di un gap con il Centro-Nord immediatamente visibile, che investe anche il trasporto delle merci: basti pensare che nella circoscrizione ferroviaria di Napoli, i treni merci più pesanti sono costretti a viaggiare a una velocità media di 25-30 chilometri l’ora, e comunque non superiore ai 45.

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Anche sulla rete stradale e autostradale il gap geografico italiano è palese. Anzi forse ancora più accentuato di quello ferroviario. Sempre secondo i dati dell’Ance, il numero di chilometri di autostrade (ogni mille di superficie territoriale) è nel Mezzogiorno circa la metà di quello settentrionale (18 contro 30). E se è vero che quei diciotto chilometri sono gli stessi di cui dispone la Francia, è vero anche che in molti Paesi europei negli ultimi tempi c’è stato uno sviluppo della rete autostradale che il nostro Sud invece non ha conosciuto: dal 1990 ad oggi, secondo i dati Eurostat, la dotazione meridionale è rimasta sostanzialmente invariata, mentre in Spagna è salita ogni anno del 5,1% e in Germania di quasi l’1%. Certo, la Salerno-Reggio Calabria è stata notevolmente migliorata nella percorribilità, ma restano anche su quel tratto carenze non di poco conto, sia nella manutenzione sia nelle connessioni con i centri urbani calabresi. Un capitolo ancora più doloroso riguarda la Sicilia, dove le autostrade restano per gran parte incompiute, con insufficiente manutenzione, e prive delle tangenziali intorno alle città. Anche nella rete autostradale, così come in quella ferroviaria, il Mezzogiorno nel suo complesso presenta i peggiori livelli di accessibilità sia in Italia che in Europa: fatto cento l’indice medio europeo, calcolato su 263 regioni, Basilicata e Calabria non arrivano a 30 mentre Sicilia e Sardegna restano in fondo alla classifica rispettivamente con 18,4 e 6,5. Livelli ben lontani dal 138 della Lombardia e dal 254 dell’Ile de France. L’unica regione del Sud che si salva è la Campania con poco meno di 90.

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Dalle strade ai porti. Fin dal 2018 si sarebbero dovute attivare al Sud quattro Zone economiche speciali (favorite da detassazioni e minori vincoli burocratici) nei porti di Napoli, Bari, Taranto e Gioia Tauro, seguite da altre quattro in Sicilia, Sardegna e Abruzzo. Oggi neppure le prime sono operative: “Siamo ancora ai preliminari – denuncia in una sua analisi Adriano Giannola, presidente della Svimez – siamo ancora all’individuazione delle pre-condizioni essenziali, normative e finanziarie”. Lunghi mesi sono passati ad esempio nell’incertezza se fosse meglio introdurre per quelle zone un credito d’imposta automatico o via via autorizzato. E ci sono voluti tre anni di diatribe per ammettere anche le attività della logistica ai regimi agevolati. Nel frattempo, nell’ultimo decennio, mentre quasi tutti i maggiori porti europei hanno aumentato sensibilmente il proprio volume di movimentazione, con incrementi medi che, dice l’Ance, arrivano a oltre il 30% per Danzica in Polonia, e per Sines in Portogallo, Gioia Tauro, unico porto del Mediterraneo presente tra i primi 20 in Europa, ha visto crescere i suoi traffici solo dell’1,8%.

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Certo, su questo differenziale di crescita pesano le caratteristiche fisiche dei nostri porti, molto spesso inglobati nelle città e con poche possibilità di sviluppo. Ma pesa anche e soprattutto, secondo l’Ance, “la scarsa dotazione e la scarsa qualità delle altre infrastrutture di trasporto che dovrebbero consentire un agile smistamento delle merci, ovvero delle reti stradali, autostradali e ferroviarie”. Capita così che lungo la direttrice tirrenica tra Cancello e Paola, i container di ultima generazione, le casse mobili e i semirimorchi più grandi, trasportati dalle navi, non possono viaggiare verso l’interno sui carri merci perché molto semplicemente non passano nelle gallerie. Ecco uno dei tanti esempi di come non si riesca a programmare uno sviluppo realmente  integrato dei trasporti e della logistica per il Sud e di conseguenza anche per il resto d’Italia.

Alla mancanza di una visione programmatica unitaria nel campo delle infrastrutture – e non solo nei trasporti – si accompagnano poi tutti i limiti fin troppo conosciuti, a cominciare dalle incapacità progettuali, soprattutto a livello locale, e dagli infiniti rallentamenti burocratici. La Banca d’Italia ha stimato che sul totale dei progetti infrastrutturali avviati e non completati, il 70% è localizzato al Sud. La sfida maggiore, dunque, non sarà tanto o solo quella di riscrivere un buon Recovery Plan che sappia occuparsi del nostro Mezzogiorno all’interno di una visione nazionale ed europea, ma quella di tradurre rapidamente i progetti che scaturiscono da quella visione in tanti efficienti cantieri.

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