Filiera, ricerca e impegno: una birra al 100 per 100 italiana è possibile

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Nella nuova Guida “Le Birre d’Italia” de L’Espresso e Il Gusto, appena uscita in edicola, il tema della “birra italiana” emerge in tutta la sua importanza, soprattutto quando si affronta la produzione artigianale. Allora la domanda – “Da dove provengono le materie prime delle nostre birre?” – risulta tutt’altro che ­­banale, soprattutto se si considera che fino a qualche anno fa, malterie, coltivazioni di orzo distico e luppoleti in Italia si contavano sulle dita di una mano.

Essere birrificio artigianale non vuol dire usare necessariamente ingredienti locali (e ci mancherebbe!). Su questo aspetto la legislazione parla chiaro: la birra può essere considerata autoctona (indicata con la dicitura “birra italiana” in etichetta) solo se composta da almeno il 51% di materie prime nazionali. Esistono due livelli di “italianità”: quella relativa alla coltivazione e alla lavorazione, e quella riguardante la genetica o meglio lo sviluppo del seme stesso. La produzione artigianale di birra italiana è molto giovane rispetto a quella delle vicine Germania e Belgio, è stato quindi naturale per i mastri birrai dello Stivale approvvigionarsi all’estero negli ultimi trent’anni. Oggi i birrifici agricoli che coltivano orzo e luppolo sono ancora pochi e poche sono le aziende italiane che possiedono macchinari per la maltazione. I progetti avviati negli anni da pionieri come Baladin in Piemonte; Italian Hops Company o Luppolo & Co.; Mastri Birrai Umbri e Malteria di Monferrato – per ciò che riguarda l’universo della maltazione da filiera territoriale – sono solo alcuni dei migliori esempi di filiera nazionale, o persino regionale. Tutte realtà che investono molto anche nella ricerca: del suolo migliore, del clima migliore e della migliore genetica.

 I fratelli Elena e Andrea Bagli 

A questo proposito abbiamo intervistato Andrea Bagli, Brewery Manager di Birra Amarcord – birrificio romagnolo da sempre attivo in progetti di sostenibilità – e Michela Nati presidentessa della Cooperativa Luppoli Italiani. Due realtà che, in Emilia Romagna, rappresentano uno degli esempi più riusciti di collaborazione sinergica tra due importanti operatori di filiera: il contadino e il mastro birraio.

 Le Birre Amarcord 

«Il marchio nasce nel 1997 come Brew Pub nel lungomare riminese. – racconta Andrea – I fondatori furono veri pionieri: la loro era la settima licenza rilasciata a livello nazionale per la produzione artigianale e indipendente della birra. Dieci anni dopo la mia famiglia decide di rilevare il marchio e rilanciare quella che era al tempo una piccola azienda sia in termini di volumi che di tecnologia e know-how. Siamo partiti investendo in un nuovo assetto produttivo: macchinari moderni e persone qualificate. Negli ultimi 13 anni siamo riusciti a portare i volumi di vendita da 700 hl a oltre 38.000 hl, per questo la vera sfida per me, mia sorella e nostro padre è stata mantenere alto il livello qualitativo nonostante una crescita così veloce. Abbiamo investito sulle persone qualificate, sulla formazione e sulla sostenibilità. E a proposito di sostenibilità, tutti i progetti intrapresi stanno dando un grande risultato che ci rende orgogliosi e che ci stimola a proseguire i nostri sforzi di efficientamento energetico in tutte le aree del Birrificio».

Da sostenitore dell’ambiente, pensi sia una forzatura coltivare luppolo e orzo in Italia?

«Tecnicamente il luppolo è una pianta che cresce meglio a latitudini comprese tra 30° e 52°, quindi secondo noi non c’è una forzatura. Ovviamente non tutte le varietà di luppolo trovano in Italia terreno e clima ideale. Detto ciò, non si tratta di semplice campanilismo. Da parte nostra la ricerca della qualità è il valore fondamentale anche nella scelta delle materie prime, ma a parità di qualità, l’agricoltura italiana ci permette anche di abbassare le emissioni legate ai trasporti».

Cosa vi ha spinto a produrre birra con ingredienti italiani?

«È una scelta logica, una conseguenza delle iniziative a sostegno dell’ambiente intraprese negli ultimi dieci anni. Prediligiamo ove possibile le materie prime italiane. Nel 2018 abbiamo fatto un ulteriore passo avanti grazie alla collaborazione con la Cooperativa Luppoli Italiani, inserendo nella filiera produttiva anche luppolo romagnolo».

Il team di Amarcord e le donne della Cooperativa Luppoli Italiani 

Com’è nata questa collaborazione?

«Sono stato contattato dalla cooperativa e all’incontro la presidentessa Michela Nati mi ha chiesto senza troppi preamboli se ci interessava del luppolo coltivato in Emilia Romagna. Ho risposto entusiasta, chiedendole quanto avrebbe potuto vendercene. Mi ha risposto candidamente che dovevano ancora piantarlo, ma che ora l’avrebbero fatto. La preparazione e l’entusiasmo di queste imprenditrici agricole ci ha fatto decidere. E non siamo stati “solo” compratori, ma anche promotori di quello che all’epoca era solo un progetto. Abbiamo stabilito un rapporto di fiducia e investito assieme nella riconversione a luppoleto di cinque ettari di campi coltivati».

Che altre materie prime italiane usate nelle vostre birre?

«Usiamo del coriandolo romagnolo per la “Blanche”; nella “Riserva Speciale” visciole e prugnole, frutti che nascono selvatici nelle colline romagnole e nelle Marche. Molte cotte contengono farro marchigiano e frumento tenero crudo coltivato tra Umbria, Marche ed Emilia-Romagna. Dopo aver introdotto anche il luppolo romagnolo, ci siamo subito messi alla ricerca di un partner italiano che ci potesse garantire un’elevata percentuale di malto d’orzo e che naturalmente provenisse da agricoltura sostenibile. Dopo quasi un anno di ricerche, sperimentazioni, prove in sala cotte e tante analisi il mastro birraio ha detto: “Sì: abbiamo trovato il malto d’orzo perfetto per le nostre ricette!”. Proviene dalle regioni meridionali del Bel Paese dove il sole è più caldo, per questo ideali per la coltivazione dell’orzo.»

Mastro birraio di Amarcord Andrea Pausler e Michela Nati nel luppoleto della Cooperativa 

A chi, tra i vostri colleghi, afferma che un paragone tra le attuali materie prime italiane e i prodotti realizzati da storiche malterie e luppoleti nordeuropei e statunitensi, è oggi ancora arduo, cosa ti senti di rispondere?

«Il particolare clima italiano consente di ottenere varietà di orzo e luppolo di ottima qualità. Per quanto riguarda l’orzo, l’Italia è una grande coltivatrice di cereali. L’ambiente, il clima e l’esperienza sono tali che la qualità del malto d’orzo italiano è incredibilmente elevata: cosa consente alle piante di crescere? Il sole! E noi ne abbiamo in abbondanza. Il grano, l’orzo, il farro, il sorgo, rappresentano una precisa e primordiale vocazione della terra. Per quanto riguarda il luppolo ovviamente non tutte le varietà trovano in Italia il terreno e clima ideale, per cui avviene una selezione naturale. Ad esempio, da parte della Cooperativa Luppoli Italiani c’è stata un’attenta sperimentazione al fine di capire quali luppoli fossero più adatti al clima e al terreno della zona della Romagna, optando poi per le varietà statunitensi quali “Nugget”, “Centennial”, “Cascade”, “Chinook”: aromatiche e resistenti al caldo estivo delle nostre latitudini. Tutte favolose!»

La Cooperativa luppoli italiani (foto @Isabella Franceschini Photography) 

La Cooperativa Luppoli Italiani è invece il frutto di un ambizioso e giovane progetto imprenditoriale avviato nel 2018. Quattro aziende agricole della campagna del Ravennate decidono di dare vita a un nuovo tipo di coltivazione. Un’avventura intrapresa sia per voglia di mettersi in gioco sia per affrontare con coesione le diversificazioni agricole richieste dal mercato. Ce lo racconta Michela Nati, presidente e socia della Società Agricola Bellavista.

Una panoramica del luppoleto della Cooperativa Luppoli Italiani in Emilia Romagna 

«La nostra è un’impresa collettiva nata da aziende agricole con uno storico di colture diverse. – Spiega Michele – Da tempo io, le mie sorelle e le imprenditrici agricole del territorio ci interrogavamo sulla necessità di diversificare le nostre produzioni per sopravvivere sul mercato. Le donne si sa, sono creatrici di vita e di idee, e la tanta voglia di intraprendere nuove sfide agricole ci ha convinte a unirci. Abbiamo iniziato a fare ricerca su quelle che potevano essere coltivazioni adeguate per terreno e mercato e alla fine è stato scelto il luppolo.»

Perché avete scelto proprio il luppolo?

«Due fattori ci hanno stimolato. Il primo è emerso da uno studio di mercato: quello del luppolo in Italia è un mercato quasi vergine. Il secondo è un fattore naturale: abbiamo notato la grande somiglianza tra la pianta di vite e quella di luppolo. Nonostante quest’ultimo appartenga alla famiglia delle Cannabaceae, molti elementi coincidono: la tipologia della foglia e il fatto che entrambe sono piante rampicanti. Informazioni utili per individuare i giusti trattamenti».

Cosa vi ha spinto a contattare Birra Amarcord?

«Quando le prime sperimentazioni di coltura del luppolo hanno avuto successo, confermando studi e ricerche, avevamo bisogno del cliente giusto che credesse in noi. Abbiamo cercato tra i birrifici romagnoli indipendenti attenti agli ingredienti usati nella produzione delle birre. Spiccava Amarcord tra tutti e così l’abbiamo contattato».

La Cooperativa luppoli italiani (foto @Isabella Franceschini Photography) 

L’adattamento delle varietà internazionali di luppolo risulta difficile?

«Dopo quattro anni dal primo raccolto il nostro luppolo, secondo le analisi eseguite dall’Università di Parma, è confrontabile sui panel test con le varietà coltivate negli Stati Uniti. Sotto suggerimento di Birra Amarcord è stato anche fatto analizzare dall’Università di Monaco tum – tra le più esperte nel campo –, che ha confermato il dato. La nostra è la varietà “Cascade” – normalmente coltivata nell’Oregon – e ha caratteristiche simili alla sorella statunitense, ma non a livello sensoriale. L’Italia è soffiata da molti venti e il vento come il terreno dà un’impronta distintiva alle coltivazioni. A parità di seme e trattamenti il nostro ha sviluppato una sua identità, diciamo “romagnola”».

Quante tipologie di luppolo si potrebbero coltivare con successo in Italia?

«Non tutte le varietà si adattano ai nostri terreni, per questo, con l’Università di Parma, stiamo continuando la ricerca e la sperimentazione. Possiamo però affermare che praticamente tutte le varietà di luppolo europee e americane possono dare ottimi risultati nel bacino del Mediterraneo, e me lo confermano quotidianamente anche gli altri colleghi iscritti come noi al Consorzio Birra Italiana».

Lo sviluppo delle filiere brassicole italiane è un processo inarrestabile, e molti sono i birrifici consci del grande valore di biodiversità del “Giardino d’Europa” e sempre più numerosi i coraggiosi progetti di filiera portati avanti da imprenditori e ricercatori appassionati. Molti di loro li raccontiamo nella nuova opera editoriale “Le birre d’Italia” targata realizzata da Le Guide de L’Espresso e Il Gusto.

Il volume “Le Birre d’Italia” vi aspetta in tutte le principali edicole e librerie nazionali e online su Amazon, IBS, Hoepli e su ilmioabbonamento.gedi.it.

Segui le iniziative de Le Guide de L’Espresso su Il Gusto e sui social @guideespresso

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