Filomena Gallo: “La mia vita accanto a chi sogna un figlio e a quanti chiedono di morire”

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“Questa era la sedia di Marco Pannella, la sua compagna storica, Mirella Parachini me l’ha regalata dopo la sua morte. Le piante sul terrazzo invece me le ha mandate Emma Bonino quando con il mio compagno ci siamo trasferiti qui, due anni fa. Curare le piante mi dà sollievo alla mente e sono ricordi per me carissimi”. Filomena Gallo sorride spesso, muove i capelli scuri, ha un tono musicale nella voce pacata, l’accento che modella le parole di chi è cresciuto al Sud, mamma siciliana, papà campano, si incontrano in Svizzera, Filomena nasce nel 1968 a Basilea, poi la famiglia torna indietro, a Teggiano, troppo grande la nostalgia delle radici.

Dall’incontro con il pescatore povero a quello con Coscioni

“Fin dai miei primi giorni da avvocata, dall’incontro con un pescatore che non poteva pagare un legale per difendersi da una cartella esattoriale ingiusta, avevo deciso che una parte del mio lavoro sarebbe stata dedicata, gratuitamente, all’aiuto di chi non aveva tutele. Poi nel 2004 ho conosciuto Luca Coscioni, la sua forza dirompente mi ha catturato e ho capito qual era la mia strada. Le sue parole sono diventate le mie parole: dal corpo delle persone al cuore della politica”.
Un attico silenzioso e ordinatissimo in una bella piazza di San Giovanni, a Roma. Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni, avvocata cassazionista, protagonista di tutte le più estreme battaglie sui diritti civili degli ultimi vent’anni, abita qui, con il suo compagno, avvocato anche lui, in una fusione di vita e di militanza politica.

I tre modelli e l’impegno per la democrazia

“I diritti della persona sono la democrazia. Me l’hanno insegnato Pannella, Bonino e Coscioni”. Empatia e acciaio, così Filomena Gallo vince nei tribunali. Sono passati 25 giorni dal primo suicidio assistito in Italia. Con un collegio giuridico specializzato lei ha vinto contro l’Azienda Sanitaria Unica delle Marche. Era accanto a “Mario” negli ultimi istanti di vita.
“Mario, cioè Federico Carboni, mi manca moltissimo. Per me non esistono i casi, esistono le persone. Con ognuna entro in una comunicazione profonda, altrimenti non potrei occuparmi delle loro vite. Questo ciondolo che porto al polso me l’aveva mandato Federico per il mio compleanno. Fino all’ultimo ho detto a Federico che poteva cambiare idea, ma lui era sereno. ‘Però tu continua a combattere perché quelli come me possano essere liberi'”.

Oggi chi si trova in condizioni di estrema sofferenza è più libero di scegliere?
“Sì, perché grazie alla disobbedienza civile di Marco Cappato e le battaglie dell’Associazione Coscioni, i malati che hanno i requisiti richiesti dalla Consulta potranno esercitare il proprio diritto di essere accompagnati a morire. Per me però è stata una vittoria con un’ombra”.

Quale ombra?
“Ho perso un amico. Federico oggi è in pace, ha affermato la sua libertà, ma il dolore della perdita resta, è umano”.

Ha sempre voluto diventare avvocata? “Veramente volevo fare il medico. Mio padre, anzi, avrebbe preferito che scegliessi l’insegnamento, aveva indirizzato i miei studi verso un diploma completo, cioè le magistrali. Mio nonno invece mi aveva appoggiato subito. Giurisprudenza era stato il punto di incontro. Studiavo e lavoravo d’estate in Germania con mio fratello, nei suoi ristoranti. Mi sono laureata a Salerno, ho fatto il praticantato in un ottimo studio. Lì mi sono orientata sul diritto di famiglia”.

E com’è la sua di famiglia?
“Semplice e unitissima. Mio padre era emigrato in Svizzera per lavorare in fabbrica, lì ha incontrato mia madre. Una storia italiana, una storia del Sud. Sono nata che mia mamma Serafina aveva soltanto vent’anni, quando ero ragazza sembravamo sorelle, mentre mio papà Giovanni ne aveva 27. Da bambina passavo mesi nella fattoria di mio nonno, c’erano i conigli, le mucche. Ho un ricordo stupendo di quei giorni”.

Nel 1997 lei inizia ad occuparsi di fecondazione assistita. Come mai?
“Si era verificato un problema nella distribuzione dei farmaci che servivano per la stimolazione ovarica. Non ci fu bisogno di andare in tribunale, la ministra Bindi corresse l’ordinanza. Ma dal dolore delle coppie infertili è nata la mia prima battaglia: perché a quelle coppie fosse garantito il diritto civile di provare ad avere un figlio con l’aiuto della Scienza”.

In Italia era ancora tutto possibile. Lo chiamavano il Far West della provetta, però.
“Un Far West che non esisteva invece. Serviva una legge, ma il testo che poi fu approvato ha inflitto sofferenze disumane alle coppie. È stato durante il referendum per abolire la legge 40, che ho incontrato Luca Coscioni e il Partito Radicale”.

Un incontro fondamentale.
“Ricordo Luca che parlava con il sintetizzatore, non aveva voce ma la sua voce era un urlo contro una politica sorda che negava la libertà di ricerca. Davanti a lui mi ero sentita piccola piccola. Poi ho conosciuto Pannella, Bonino, Cappato. Mina Welby. Marco Pannella mi chiamava Minuccia, l’unico da cui abbia accettato un diminutivo, al di fuori della famiglia. Con Emma ho sempre avuto un rapporto affettuoso che dura tuttora”.

Dal corpo della persona al cuore della politica. Come si traduce in azioni concrete?
“Portando fuori dalle stanze dei malati le loro istanze, come fecero Luca Coscioni con la Sla e poi Welby, con la sua richiesta di eutanasia che portò all’interruzione della cure. Il corpo diventa soggetto politico. Ma anche con la strategia dell’attivazione delle giurisdizioni. Cercare cioè ogni strada possibile per applicare un diritto se il Parlamento è inerte, passando per i tribunali. Così abbiamo abolito i divieti della legge 40, così abbiamo ottenuto il primo suicidio assistito”.

Tanti bambini sono tornati a nascere grazie alla sua battaglia contro la legge 40. Lei invece non ha figli.
“Li avrei voluti, poi le condizioni di vita cambiano e cambiano le scelte. Con il mio compagno siamo insieme da 10 anni, abbiamo una vita piena: il lavoro, i libri, gli amici, la buona cucina, la musica, qualche viaggio. È già molto e va bene così”.

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