Generazione Z e “dupe culture”: compro falso, e me ne vanto

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Tra le varie leggende – che, naturalmente, contengono sempre un briciolo di verità – diffuse nel magico mondo della moda, si ricorda quella di due cugine appartenenti a quell’altissima borghesia italiana così economicamente stagionata da venire considerata una forma di aristocrazia. Pare che le congiunte, durante una delle rare passeggiate in centro città, osservando le borse taroccate di grandi griffe, vendute sui marciapiedi dai vu’ cumprà (si potrà ancora dire, in tempi di politically correct?), le comprassero a man bassa, «tanto chi vuoi che pensi che noi le abbiamo false?».

Altri tempi, quelli in cui acquistare una copia era fonte non solo di risparmio, ma anche di un autocompiacimento sornione e silente: certo, un’azione né lodevole né imitabile, ma in grado di regalare il frisson di portare a casa un oggetto il cui valore e la cui qualità (nonché la sua provenienza) erano, eufemisticamente, più che discutibili ma faceva rodere d’invidia gli amici più ingenui e sorridere quelli più sgamati, non causava lutti nei conti correnti in aso di perdita e, in caso di fruitori intellettualmente sofisticati, rappresentava una forma di contestazione del sistema moda, dai costi percepiti come ingiustificati. Chi legge e fa parte della generazione boomer, cioè coloro nati quando ci si spedivano cartoline scritte a mano e si facevano foto con le macchinette usa-e-getta e a cui la parola “rete” faceva pensare solo alla pesca o ai ragni, ricorderà gli amici che tornavano dai viaggi in paesi esotici (si potrà ancora dire, in tempi di politically correct?) che regalavano, una volta tornati, come souvenir manciate di orologi che scimmiottavano quelli di grandissime marche, talmente inautentici da essere esibiti a due/tre al polso, frutto di innocue razzie nei mercatini rionali specializzati in “copia e incolla” di modelli famosi.

Avvertenza: qui non si sta difendendo la contraffazione che non ha niente di innocuo, è un vero e proprio reato, perché costituisce una truffa sia per l’acquirente, sia per la casa madre, di prodotti falsificati spacciati per veri, e perché vi sono riprodotti dettagli e loghi di marchi registrati per raggirare anche il più accorto dei devoti al lusso: un’azione totalmente illegale che tra l’altro alimenta il lavoro minorile, le organizzazioni criminali, il riciclo di denaro sporco che viene “ripulito” per finanziare anche il terrorismo.

Retail marketing

Shopping: l’emozione è dietro l’angolo

Ma è interessante analizzare l’attuale zona grigia del commercio legale, legalissimo, a cui gli americani – sempre bravissimi a creare neologismi per ogni nuovo fenomeno socioculturale – hanno dato nome Dupe Culture, dove dupe sta per “inganno” ma anche per “credulone”. Ovvero: la vendita di scarpe, borse, sneakers, felpe, T-shirt ma anche skincare che sono dichiaratamente rifaci- menti, plagi, duplicati, repliche, facsimile, smerciati come “omaggi” o “tributi” a quelli autentici, e quindi non possono essere considerati tranelli per gonzi, che sono invece perfettamente consapevoli di ciò a cui vanno incontro, anche con una certa baldanza.

«Il costo alto di molte fragranze di designer, nonché quello a volte esagerato di altrettanti profumi di nicchia, ha dato origine a un settore particolarmente florido: quello dei profumi “equiva- lenti”», è scritto su una delle piattaforme italiane più importanti per la vendita di cosmetici dupe, ancora più pericolosi perché, quasi sempre, sulla confezione sono privi della lista dei componenti e, destinati a entrare a contatto con il corpo, non mettono in guardia da allergie o intolleranze. Non c’è niente di contrario alla legge: questo tipo di oggetti sono spesso distribuiti con nomi dalle assonanze simili ma non uguali, il più delle volte dentro confezioni più ruspanti. Hanno piccole, impercettibili variazioni nella forma che invece, ovviamente, sono smentite da mutamenti smisurati dei materiali. Peccato però che, nell’era dei social, dove a farla da padrone è l’immagine bidimensionale e priva di odori, la somiglianza sia impressionante e sottolineata anche da influencer (anche loro dupe di quelli più famosi: c’è la ragazza che ricor- da vagamente Chiara Ferragni, o il giovinotto palestrato che è una pallida fotocopia di Mariano Di Vaio) che nei video su TikTok, dove la fioritura di cloni è sempre più rigogliosa, fanno pubblicità alle riproduzioni inneggiando alla furbizia del risparmio. Celebrando il fare «una buona impressione» senza spendere l’equivalente di due stipendi medi e assicurandoci che è nello stile personale e non nella fama dei grandi brand che si nasconde la chiave del successo in quanto a gradevolezza, raffinatezza, buon gusto. Ma quel che più perversamente affascina è la disponibilità dei consumatori informatissimi nel sapere di acquisire un oggetto dupe, quando nel Millennio scorso o si fingeva di possedere l’originale oppure, come abbiamo scritto prima, lo si considerava per quello che era: un gadget aspirazionale, un arredo corporeo a modico prezzo, un gingillo con cui baloccarsi. E invece.

Scarpe

Da Chiara Ferragni a Bella Hadid, gli stivali vestono le gambe nude

Sono i giovanissimi, soprattutto, a costituire la base maggiore di clientela di “veri falsi”, secondo quanto dichiarato dalla compagnia inglese Money, che ha evidenziato come su TikTok a vendere di più sono marchi come Gucci, al primo posto, seguito da Rolex e da Louis Vuitton: un dato presunto da hashtag, come per esempio #fakeGucci, o #Guccifake. Servono per aggirare il #counterfeit che permette al social di rimuovere immediatamente il video in cui si promuovono esemplari dupe che si possono acquistare direttamente dall’app, mettendo anche in circolo elementi sensibilissimi come il nome, la data di nascita, il numero della carta di credito. Ma ai ragazzi che non possono permettersi gli originali, e giustamente sono affamati di novità, tutto questo appare secondario: i consumatori di tutto il mondo hanno speso 32 miliardi di dollari in acquisti su app solo nei primi tre mesi di quest’anno.

Jason Dorsey, esponente della Generazione Z e presidente del Center for Generational Ki- netics di Austin, in Texas, ha af- fermato che la Generazione Z, che comprende una parte enorme del pubblico di TikTok, è cresciuta nel periodo della Grande Recessione del 2008 e ha visto i genitori avere grandi problemi finanziari. Ciò li rende tendenzialmente cauti con i soldi. «Vogliono fare buoni affari, l’alternativa è convincerli a prendere solo cose che dureranno a lungo. È l’unica maniera per educare i giovanni a non cadere nella trappola dei dupe», ha affermato Dorsey. Non dimentichiamo però che quella stessa filosofia di oggetti “ispirati” a creazioni di grandi designer è tuttora alla base delle grandi catene di fast fashion sparse in tutto il mondo, che dicono di disegnare collezioni nell’aria dei tempi, quando tutti sappiamo che sono copiate di sana pianta.

E allora, forse, la colpa della moda-sosia ha radici ancora più lontane, e se adesso gli adulti non si vergognano minimamente di mostrare con orgoglio le loro calzature comprate a 49,99 e rifatte tal quali a quelle Saint Laurent o Ferragamo, perché dovrebbe farlo un ventenne? Il fatto che di questi prodotti venga sistematicamente taciuto il luogo di produzione, e soprattutto chi le abbia confezionate, non è certo un elemento confortante. Chissà cosa pensa Greta Thunberg, i partecipanti ai Fridays For Future, i sostenitori della moda e dell’economia circolare. Forse avremmo più bisogno di loro cloni in grande quantità più che dell’ennesima blusa con volant simile a quella della griffe celeberrima. Che al primo lavaggio è già ridotta uno straccio

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