Scrivere e viaggiare. Scrivere di uomini e biciclette, viaggiargli dietro, davanti, intorno, aspettarli, rincorrerli, raccontarli, cantarli. E poi piangere assieme a loro e per loro, rendere eterno un attacco, una salita, una caduta. Con lo scabro mezzo del giornalista ma anche del poeta: la parola. Gianni Mura e il ciclismo sono stati l’uno il completamento dell’altro, necessari a vicenda entrambi, nati per conoscersi, amarsi e non lasciarsi mai.
Mura aveva iniziato a vent’anni, a ventidue era davanti al corpo disteso di Simpson, a 23 esultava con Vitaliana per la vittoria di Adorni nel Mondiale di Imola, a ventiquattro interrogava Merckx in lacrime nella sua camera d’albergo ad Albissola. Gianni c’era, era lì, testimone e protagonista, narratore e personaggio lui stesso di quella grande commedia umana che si riassume in genere sotto la parola “ciclismo”. I suoi “Racconti della bicicletta” sono una galleria e, come disse lui del Tour, capitoli di una indimenticabile “chanson de geste”: cavalieri su cavalli di ferro lanciati verso il sole o l’abisso del doping, voli spezzati e corse disperate, cimiteri e osterie, fughe, montagne, Brel e Brassens, Indurain e Pantani, odi ed epodi di uno sport che è simile alla vita, fin troppo a volte.
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