Giulia Cecchettin e il sottile confine tra controllo e sopraffazione

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La sorella. “Lui non voleva che lei si laureasse prima di lui. Le diceva che avrebbe dovuto aspettarlo, rallentare gli esami”. Dunque riassumendo. Ci sono due ragazzi che studiano Ingegneria biomedica all’Università di Padova. Vent’anni, colti, studiosi. “Buone famiglie”, qualunque cosa si intenda con questa definizione che ricorre in ogni cronaca: immagino famiglie conformi all’archetipo di “normale” famiglia italiana. Genitori di sesso diverso, bianchi, relativamente benestanti, premurosi coi figli, con una buona reputazione sociale. Famiglie ora costernate perché tutto questo appare ai loro occhi imprevedibile: com’è potuto succedere, erano – in arrivo qui la seconda formula rassicurante e ricorrente – “bravi ragazzi”.

Lui, lui che nel video la colpisce e la carica in macchina come un fagotto. Un bravissimo ragazzo. Quindi dicevamo. Due ragazzi perfettamente omologhi: stessa età, estrazione sociale, condizione economica, zona di residenza, stessi studi di alto livello. Nessun disagio visibile né noto. In un solo aspetto diversi: lui un uomo, lei una donna. Lui le chiedeva di rallentare, di non arrivare prima.

Che storia esemplare, no? che cartina al tornasole del mondo e del modo in cui – persino senza accorgercene – viviamo. Come se fosse normale, senza stupore. È così che vanno le cose: certo anche lei poteva rallentare un po’, farlo contento, santa ragazza. Non umiliarlo, laureandosi per prima. Prevedere, prevenire.

Mi dicono, mentre ne parlo senza sosta a colazione, in auto, al telefono, a tavola, con chi vive con me e con chiunque: parli sempre della stessa cosa, però. Non ti stanchi? Guarda che a ripetere sempre la stessa cosa le parole perdono forza. Perdono forza. Le parole. Non so. È vero che parlo spesso (non sempre) della stessa cosa: il fatto è che è LA cosa. Ogni altra ne discende, nei rapporti nelle relazioni nella società, nel nostro modo di interpretare e abitare il mondo.

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Perché lui non voleva che lei si laureasse prima di lui, per esempio? Perché si sarebbe sentito umiliato. Sulla base di quale principio? Andiamo indietro alle ragioni delle cose: perché se una ragazza del tuo corso si laurea per prima tu, ragazzo, ti senti umiliato? C’è forse una regola condivisa, ancora ovunque, che prevede che le ragazze debbano stare un po’ di lato mezzo passo indietro, come diceva quello in tv? Che debbano rallentare un po’ per farti primeggiare, perché è ovvio che tu, l’uomo, devi essere la guida? “Aggiungi il fatto che lei lo aveva lasciato. Si sarà sentito inadeguato doppiamente: non all’altezza dell’amore di lei, non migliore negli studi” – osservano le persone con cui discuto. Ma povero. Quindi si tratterebbe di un problema di autostima offesa, di frustrazione. La sensazione di non essere all’altezza delle aspettative. Le aspettative di chi? Le proprie, quelle degli altri, gli altri chi? Le famiglie, i compagni di studi, il mondo fuori che non fa una piega se è lei a laurearsi dopo, se è lei a essere lasciata perché “non ha saputo tenerlo”, non è sei abbastanza “paziente comprensiva ostinata”. Alle ragazze si insegna la frustrazione delle aspettative fin da bambine. Ai ragazzi?

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Ma la sorella, torniamo alla sorella. “Lei voleva andare a fare shopping a Padova, lui si è proposto di accompagnarla, lei ha rifiutato e se lo è trovato alla fermata dell’autobus”. Sintesi. Non esiste che tu, ragazza, decida se andare con o senza di me. Sono io che decido. Lui le dava consigli su come muoversi, su che mezzi prendere, su che abiti scegliere. Consigli? In che senso consigli? Lui pensava che lei non sapesse andare dal punto A al punto B, una laureanda in Ingegneria, che avesse bisogno della sua mappa per muoversi? Lo pensava o lo pretendeva?

Parli sempre della stessa cosa. Sì ma è LA cosa. Anni fa ho incontrato Irina Lucidi, oggi un’amica molto cara. Il suo ex marito, dirigente di alto livello nella sua stessa azienda (anche lei dirigente ma meglio pagata e con più responsabilità di lui) le metteva i post-it con le indicazioni su come scaldare il latte per le figlie, come chiudere le finestre. È finita in tragedia. Lui era una personalità psicorigida, dicevano i terapeuti della coppia (dopo la separazione, in Svizzera dove vivevano, erano andati in terapia). Personalità psicorigida. Ossessione del controllo. Certo, capisco: del controllo di lei, anche. Del controllo delle azioni di lei. Poi, osservo a chi risponde: non esagerare però, aiutare qualcuno a trovare la strada è un modo per prendersene cura. Giusto. Ma la cura, come concetto in sé, prevede un dislivello di potenzialità: chi cura e chi è curato non sono nelle stesse condizioni. Uno è fragile, uno è forte. Il bisognoso di cure è un bambino, un malato, una persona debole. Chi cura protegge, conduce, guida una persona che da sola non potrebbe. Ma se due persone sono esattamente identiche come potenzialità che bisogno ha, una, di essere curata e guidata dall’altra? Nessuno: è chi si offre come guida, che ha bisogno di sentirsi la guida. Poi certo che esiste la cura nell’amore reciproco. Ma è fatta di ascolto, di capacità di rispettare i desideri dell’altro quindi per esempio astenersi dalla cura se l’altro non desidera essere accompagnato ma vuole andare solo, se cura vuol dire ti spiego io come legare la bicicletta, amore, vieni.

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Prometto di non scrivere di questo tema per un paio di settimane se in cambio mi promettete, voi che leggete, di fare una piccola ricognizione nelle vostre vite per andare a cercare quanti post-it, reali o virtuali, avete nella vita e vi sembrano una cosa normale: in fondo, che vuoi che sia, è una premura. Ecco. Il confine fra premura e controllo e poi quello fra controllo e sopraffazione, è un attimo. Uno smottamento tollerato. Non finisce sempre in tragedia, è vero. Lo so, lo so. Ma ogni volta che finisce in tragedia è questo il tragitto.

È uno scritto più confuso del solito, questo, vi chiedo pazienza. Ho anche io un tema di contenimento della rabbia: “Non voleva che lei si laureasse prima, le chiedeva di rallentare” mi annebbia la vista. Come si deve dire, più chiaro di così, il problema qual è: quello che non chiamiamo problema ma norma, la regola su cui scriviamo leggi e edifichiamo ogni giorno nuove case. Le fondamenta, però. È questo il punto: le fondamenta sono da buttare. Scavare, buttare, rifare da capo. Poi le case sopra, dopo.

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