Giustizia per Saman

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Essere assassinata, smembrata e quindi dispersa in un campo o forse in un fiume per aver rifiutato le “leggi del padre” e del clan, che si vorrebbero legittimate dalla fede arcaica in un Dio, è stato dunque il destino della giovane Saman. Pachistana di seconda generazione, cresciuta nella libertà del nostro Paese, nell’autodeterminazione del suo corpo e della sua sessualità, Saman ha pagato con la vita il diritto di rifiutare un matrimonio combinato con un cugino, per liberarsi in un bacio in punta di piedi al ragazzo, pachistano di seconda generazione come lei, di cui era innamorata.

Lo scempio rituale non ha avuto come contesto il Punjab, dove il padre carnefice Shabbar Abbas e la sua moglie schiava Nazia sono oggi latitanti, ma Novellara, tra le rogge e i campi della bassa reggiana, dove gli Abbas – padre, madre, zio, cugini, fratelli – sono rimasti impermeabili a ogni forma di elementare integrazione o di semplice contagio, anche solo per osmosi, con la religione laica dei diritti fondamentali di ogni essere umano.

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È confortante dunque leggere le parole di Raza Asif, presidente della Federazione Pachistana in Italia, lì dove dice che la morte di Saman è figlia di “una mentalità retrograda che riguarda una famiglia che non ha imparato a vivere in una società civile”. Che, nell’auspicare “una pena severa per il padre, se colpevole”, l’impegno della comunità pachistana in Italia è “lavorare con le famiglie per evitare ogni forma di integralismo dei padri verso i figli”, inculcando nei primi “il rispetto delle nuove generazioni che vivono e studiano in Italia e ne assorbono la cultura”.

È confortante perché in queste parole è evidente come nel destino giudiziario dei padri, madri, cugini o zii assassini (se tali saranno riconosciuti in un legittimo processo nel nostro Paese) è scritto il futuro delle migliaia di Saman di seconda generazione che vivono nelle nostre città.

Non lasciare impunito questo delitto, che si dovrebbe per altro smettere anche solo di definire “di onore” (quale?), è dunque oggi il solo atto concreto con cui un Paese laico e libero come il nostro può dimostrare di credere nell’integrazione di culture e religioni diverse sotto l’ombrello universale del rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali.

È un impegno che la Procura e i carabinieri di Reggio Emilia, il ministero di Giustizia hanno sin qui dimostrato di saper mantenere. Un fratello e due cugini di Saman sono stati già arrestati dopo aver tentato la fuga in Francia e Spagna e risale al febbraio scorso la richiesta di estradizione per il padre e la madre di Saman.

Ma tutto questo, purtroppo, non è ancora sufficiente. Con il Pakistan non esiste infatti alcun accordo bilaterale di cooperazione giudiziaria (che favorirebbe l’estradizione), né esistono le condizioni per siglarne uno, perché l’Italia non potrebbe garantire al Pakistan condizioni di reciprocità (condizione fondamentale in un accordo bilaterale).

La questione è dunque nelle mani della magistratura e del governo di Islamabad, dove un sistema penale sul modello anglosassone del common law incrocia i caveat e le eccezioni garantiti dalla sfera del rispetto religioso, non a caso quello su cui gli assassini di Saman contano per costruire la propria impunità.

Le aperture manifestate dalla diplomazia pachistana per una soluzione positiva dell’estradizione suonano incoraggianti, ma chiunque nel prossimo governo siederà sulla poltrona di ministro di Giustizia e degli Esteri deve sapere che il diritto alla libertà e alla vita delle migliaia di Saman di seconda generazione è anche sulle loro spalle. Sulla determinazione che dimostreranno nel chiedere e ottenere che Shabbar Abbas e sua moglie Nazia vengano riportati nel nostro Paese e qui giudicati in nome della legge e del popolo italiano.

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