Gli Indiana Jones, quelli veri: in Sicilia 73 ricerche archeologiche, così la storia antica verrà riscritta

Pubblicità
Pubblicità

Da un angolo all’altro della Sicilia a chiunque può capitare di incontrare Indiana Jones. E in questa storia Harrison Ford non c’entra: mentre le troupe Disney girano fra Cefalù, Siracusa e il Trapanese il quinto capitolo della saga di Indy, infatti, l’Isola sta vivendo la più straordinaria stagione della sua archeologia, con 73 campagne di ricerca che stanno portando alla luce fra le altre scoperte un teatro ellenistico e un tempio greco ad Agrigento, una città greco-romana nel Messinese, necropoli preistoriche nell’Ennese e navi romane nel mare di fronte a Palermo. A esplorare il sottosuolo e i fondali di quest’avamposto dell’era classica nel cuore del Mediterraneo sono le università di tutto il mondo, che si affidano per gli scavi alle mani di studiosi giovani e vere e proprie leggende viventi dell’archeologia, capaci di raccontare in un soffio di fiato il primo incontro con una statua di 2.500 anni fa, il Giovinetto di Mozia ora tornato in Sicilia dopo essere stato esposto al British Museum e al Getty di Los Angeles.

Al cospetto della storia

Niente che Harrison Ford possa davvero raccontare. “Era un giorno come questo, in autunno – ricorda Francesca Spatafora, che al culmine della carriera è stata direttrice del museo Salinas di Palermo e ora si dedica alla divulgazione – stava per arrivare la stagione delle piogge e quindi ci accingevamo a chiudere la campagna di scavi. Un operaio stava sistemando e venne fuori la parte inferiore di un blocco di marmo lavorato. Ci rendemmo conto che era qualcosa di grosso: chiamammo il sovrintendente dell’epoca, Vincenzo Tusa, e ricominciammo a scavare. Era una statua alta un metro e ottanta, con la testa staccata dal corpo ma perfettamente coincidente”. È questa, in fondo, la sfida degli archeologi: entrare in contatto con la storia dell’arte e farle prendere vita, ricalcando e innovando le pagine scritte da tanti studiosi del passato. Ernesto De Miro, Giuseppe Voza, Paola Pelagatti sono tra i fondatori della moderna archeologia e hanno lasciato in Sicilia decine di eredi: da Lorenzo Guzzardi, oggi impegnato in numerosi scavi nel parco di Lentini e Megara Hyblaea che dirige, a Flavia Zisa, docente e firma del lemma di Archeologia della Magna Grecia nell’enciclopedia Treccani, dal primo ricercatore del Cnr Massimo Cultraro a Rossella Giglio, che a Segesta è impegnata a riportare alla luce pezzi della città degli Elimi.

Trovati nel mare delle Egadi 25 rostri: “Riscriviamo l’epilogo della prima guerra punica”

Una stagione irripetibile

Le campagne in corso, del resto, sono un elenco senza fine. Ciascuna delle province siciliane ne ha almeno una: e se in siti patrimonio dell’Umanità come la Valle dei Templi di Agrigento si continuano a scoprire nuove testimonianze della grecità, a stupire è anche l’individuazione di nuovi insediamenti archeologici. E mentre a Calascibetta, nell’Ennese, si lavora su una necropoli preistorica, il nuovo sito più sorprendente è forse quello di Tusa, in provincia di Messina: le università di Palermo, Messina, Oxford e Amiens stanno riportando alla luce pezzo dopo pezzo una città fondata dai greci e poi conquistata dai romani, Halaesa Arconidea, scoprendovi teatri, basi di templi, un’acropoli e un sistema difensivo. “Invece di iniziative spot isolate una dall’altra – osserva l’assessore regionale ai Beni culturali, Alberto Samonà – si è voluto perseguire una direzione, quella di una politica culturale che guarda alle collaborazioni con le università e con gli istituti di ricerca per riportare alla luce le testimonianze del passato. Abbiamo voluto farlo in grande stile, attraverso ricerche un po’ dappertutto, in terra e in mare. Il futuro della Sicilia passa dalla riscoperta del nostro passato”.

Viaggio nella Sicilia delle scoperte archeologiche, l’assessore: “Così riscriviamo la storia”

Sulle spalle dei giganti

Un’intuizione che, del resto, è l’eredità di Sebastiano Tusa. L’assessore-archeologo morto il 10 marzo 2019 nella tragedia del Boeing 737 Max in Etiopia ha lasciato un’eredità politica e scientifica che si traduce soprattutto nelle ricerche in corso nel suo campo preferito, il mare: al largo di Isola delle Femmine, dove è stata scoperta una nave romana, ma soprattutto sul fondale delle Isole Egadi, dove la scoperta di un’enorme quantità di rostri sta permettendo di riscrivere l’epilogo della prima guerra punica. “Eravamo abituati a pensare che la Battaglia delle Egadi fosse stata combattuta a Cala Rossa, a Favignana – spiega Valeria Li Vigni, che oltre a essere la soprintendente del Mare è anche la vedova di Tusa – Attraverso lo studio delle fonti e attraverso la documentazione raccolta dai pescatori si ottenne invece la certezza che la presenza di innumerevoli ancore lasciate sul fondo a Cala Minnola, a Levanzo, fosse la testimonianza di un appostamento per colpire di sorpresa le truppe cartaginesi”. Ne è venuto fuori un tesoro mozzafiato: fino a pochi anni fa i rostri di epoca punica rinvenuti in tutto il mondo si contavano sulle dita di una mano, da allora ne sono stati trovati 25 solo fra le Egadi e il resto del mare siciliano.

Sebastiano Tusa e il padre Vincenzo, però, non sono gli unici pionieri dell’archeologia che hanno rivoluzionato il settore in Sicilia. Il decano è Giuseppe Voza, 94 anni, che parla ancora con l’entusiasmo dei primi giorni. Campano di nascita, ha scavato per sei decenni in Sicilia, facendo alcune tra le più belle scoperte dell’Isola: fu lui, nei primi anni Settanta, ad andare in una vecchia masseria nelle campagne intorno a Noto e riconoscere, in una stalla, i mosaici della villa del Tellaro o, più tardi, a far deviare l’allora costruenda autostrada Palermo-Messina per avere scorto in uno dei cantieri alcune tessere musive di quella che è oggi la domus romana di Patti Marina. La folgorazione avvenne un giorno del primo dopoguerra, quando la sua strada si incrociò con quella di Luigi Bernabò Brea, uno dei padri fondatori dell’archeologia moderna. “Ne rimasi affascinato – racconta – e allora gli dissi di alcune scoperte fittili simili a quelle da lui rinvenute a Lipari. Dopo qualche tempo mi telefonò e mi chiese di andare per tre mesi in Sicilia a lavorare con lui. Andai e quei mesi diventarono 60 anni”. Tra le sue tante scoperte, quella che ricorda con più entusiasmo è la grande area sacra sotto piazza Duomo, a Siracusa. “Un lavoro meraviglioso – commenta – ricordo che in piazza c’era un oleandro, proprio davanti a palazzo Beneventano, e sotto le sue radici trovai un vaso con la raffigurazione di Artemide ‘domatrice delle belve’. Era la prova che il tempio ionico sotto il municipio, poco distante, fosse dedicato a questa dea”. L’elenco delle sue scoperte è infinito, però: impossibile, ad esempio, non citare le centinaia di statuette di Demetra nell’area del santuario scoperto a ridosso del santuario della Madonna delle Lacrime, a Siracusa. “Manufatti bellissimi – racconta – che raccontavano la vita di questo luogo. Scoperte che oggi continuano ad emozionare nel museo Paolo Orsi a cui ho lavorato per anni e che ho creato ispirandomi ai più grandi musei con i quali compete in meraviglia e ricchezza”.

Quest’eredità, adesso, dev’essere portata avanti dai giovani ricercatori impegnati in Sicilia. Lo sa bene Daniele Malfitana, che dirige la Scuola di specializzazione in Archeologia dell’università di Catania: “La soddisfazione per chi pratica la ricerca sul campo o in laboratorio – osserva il docente siciliano, che dirige uno scavo a Portopalo di Capopassero per portare alla luce un sistema di tonnare e gli stabilimenti per la lavorazione del pesce in antichità – è proprio quella di vedere la soddisfazione dello studente quando si impadronisce di un metodo, sa applicarlo e riesce ad interpretare ciò che ha in mano o ciò che sta studiando. Insomma, quando si trasmette il mestiere”. Già, condividere emozioni: come sta provando a fare Rosalba Panvini, ex soprintendente di Ragusa, Catania, Caltanissetta e Siracusa, oggi impegnata nelle ricerche al Bosco Littorio, a Gela. “Adesso – sorride – torno a scavare con i ragazzi nel luogo in cui ho fatto la più bella scoperta della mia carriera, l’emporio di Gela”. Ne è passato di tempo dal 1981, quando fu chiamata proprio da De Miro per scavare nella necropoli di contrada Pezzino, ad Agrigento. “Avevo 25 anni ed ero appena diventata mamma – ricorda – un’emozione e una fatica indescrivibile. Se tornassi indietro rifarei tutto”. Impossibile sottrarsi: “Non so perché ho scelto di fare l’archeologo ma l’ho sempre voluto – racconta Dario Palermo, a cui sono legati 40 anni di scavi a Prinias in Grecia e, in Sicilia, alcune grandi scoperte tra cui il sito di Monte Polizzello e di Sant’Angelo Muxaro – e il mio primo scavo, a Rocchicella, da universitario fu la conferma di un sogno che si realizzava”. Con lui, a Rocchicella per volere di Luigi Bernabò Brea, c’era anche Massimo Frasca, già docente di Archeologia della Magna Grecia all’università di Catania, che ha dedicato molti decenni di scavi alla città greca di Leontinoi, dove adesso tornerà a scavare da docente in pensione. “Avevo 14 anni – racconta – quando mi regalarono un gioco in cui si vedevano le piramidi tridimensionali. Fu l’inizio di una passione mai finita. Abitavo a piazza Lanza, nel cuore di Catania, all’epoca con pochi palazzi e tanti prati dove giocare tra cui quello in cui c’era un ipogeo: qui sognavo battaglie e fantasticavo”. Un sogno da fare a occhi aperti, per scoprire le meraviglie un tempo immaginate. E senza uno straccio di effetti speciali. Perché alla fine non ci sono i titoli di coda. Alla fine c’è il privilegio di avere riscritto la storia.

Pubblicità

Pubblicità

Go to Source

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *