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Governo Draghi, Pancalli: “Saremo un Paese migliore quando non ci sarà più bisogno di un dicastero alla Disabilità”

Negli ultimi giorni un post dello scrittore e consigliere regionale Pd in Toscana Iacopo Melio ha suscitato polemiche: Melio sostiene che il miglior ministero per la Disabilità sia quello che non esiste.

Luca Pancalli, lei – presidente del Comitato italiano paralimpico – come la pensa in proposito?

Culturalmente non amo l’idea di un ministero particolare per persone particolari. Continuo a credere che una persona disabile prima di tutto è un cittadino. Un cittadino che sicuramente merita attenzione e un percorso che sia in grado di garantire diritti di cittadinanza fondamentali come quello a un’assistenza dignitosa, a una vita indipendente, a un percorso formativo o lavorativo. Ma questo dovrebbe essere compito di qualsiasi ministero il cui fine è agire nell’interesse di tutti, nessuno escluso. Credo, tuttavia – ribadendo che culturalmente non amo questa soluzione – che la politica abbia voluto ascrivere al ministero alla Disabilità la funzione di sensibilizzare, coordinare e incidere sull’azione degli altri dicasteri in quanto, ahimè, il nostro Paese non ha ancora raggiunto un più alto livello di consapevolezza. Per questo il miglior ministero alla Disabilità è quello che non esiste: ciò significherebbe che non si ha più esigenza di uno strumento di questa natura. Ad ogni modo, scevro da ogni pregiudizio, valuterò la sostanza di quanto questo ministero saprà produrre.

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Nella nuova compagine di ministri a oggi manca quello dello Sport: cosa pensa di questo cambiamento?

In un Paese dove spesso si si evidenzia la funzione sociale e culturale dello sport, il suo valore formativo e inclusivo oltre che la sua capacità di rappresentare un comparto significativo dell’economia italiana, ritengo sia contradditorio non prevedere un ministero per lo Sport. Credo sia necessaria un’azione che evidenzi la corrispondenza fra queste considerazioni universalmente riconosciute e le iniziative concrete. Se lo sport è tutto questo, allora è importante che ci sia un ministero dello Sport, possibilmente con portafoglio. I tanti appuntamenti sportivi internazionali che coinvolgeranno nei prossimi anni il nostro Paese – penso ai Giochi di Milano-Cortina 26, alla Ryder Cup, alle Atp Finals – assumono una grande importanza anche sotto il profilo economico e turistico.

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Lei ritiene che bisognerebbe abbattere la distinzione tra atleti normodotati e con disabilità o che sia giusto che questi vengano disciplinati e gareggino separatamente?

Che gareggino separatamente non è solo giusto ma opportuno. Perché lo sport è permettere a ciascun individuo di esprimere al meglio le proprie abilità sportive partendo dalle medesime condizioni. Poi ci sono esperienze di declinazione dello sport nella direzione della piena integrazione e inclusione, dove si partecipa insieme in quelle che sono attività ludico-motorie sportive. È ciò che già avviene grazie al lavoro nei territori di tante società sportive ed Enti di Promozione. La distinzione fra atleti normodotati e paralimpici cade nel momento in cui anteponiamo il concetto di atleta alla disabilità. Non dobbiamo cancellare le differenze. Sono un valore. Dobbiamo attribuire alle differenze il giusto peso.  Perché siamo tutti diversi ed è giusto che si valorizzino le caratteristiche di ciascuno.

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La centralità dello Sport a questo punto torna in mano al Coni e al Cip. Che ruolo avrà, in particolare, il Comitato italiano paralimpico?

Il Comitato italiano paralimpico continuerà a fare quello che ha sempre fatto, ossia preoccuparsi e occuparsi della diffusione dello sport tra le persone disabili declinandolo non solo nella dimensione agonistica. Non vogliamo investire esclusivamente sui campioni del presente e del futuro, ma – insieme alle Federazioni, agli organismi sportivi riconosciuti, agli enti di promozione – promuovere uno sport che possa essere strumento di integrazione e inclusione. I nostri percorsi all’interno delle strutture sanitarie, nei centri di riabilitazione, nelle unità spinali e quelli all’interno degli istituti scolastici ne sono una dimostrazione. Il Coni e il Cip quali istituzioni sportive saranno sempre centrali, anche in assenza di un ministero. Ma oggi gli attori in campo sono diversi rispetto a prima della riforma, ciascuno con delle competenze specifiche. Questo mi convince ancor di più sull’importanza di un ministero che in qualche modo possa costituire il centrocampo di un sistema che ieri non c’era e oggi c’è.

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Negli ultimi anni l’Italia ha fatto molti importanti passi avanti sul fronte dell’inclusione delle persone con disabilità e dell’equiparazione tra atleti con disabilità e normodotati. Quali muri restano ancora da abbattere?

Non parlerei più di muri da abbattere ma di ponti da costruire. In fondo il movimento paralimpico è la più evidente rappresentazione di un mondo che ha messo le persone disabili nelle condizioni di pari opportunità rispetto al diritto allo sport. Che è ciò che vorremmo avvenisse tutti i giorni nella vita quotidiana. Non c’è nulla da abbattere. Dobbiamo continuare a costruire le condizioni affinché la società possa essere contagiata virtuosamente anche utilizzando l’esempio dei grandi campioni dello sport paralimpico. Se avessimo già raggiunto questo percorso di pari opportunità nel Paese non avremmo più bisogno del ministero della Disabilità.

Nei giorni scorsi l’atleta Ambra Sabatini ha ottenuto il record mondiale nei 100 a Dubai: in che modo il successo della neoprimatista dipende anche dalle vostre battaglie?

Il successo di Ambra è personale. Ha dimostrato di essere una grandissima atleta. Ambra è una straordinaria ragazza con alle spalle una comunità familiare e una rete che l’ha sostenuta nei momenti difficili. Non è facile dire quale possa essere stato il contributo del Cip. Io penso che un grande campione lo è anche quando fa sport in strada o al parco. Il nostro compito è quello, metaforicamente parlando, di costruire uno stadio, riempirlo di appassionati e quanti più giocatori possibile, accendere i riflettori, curare l’erba, supportare l’atleta nelle sue necessità, ossia creare le condizioni affinché il talento di ciascuno possa emergere e soprattutto creare una dimensione che sia rispettosa delle atlete e degli atleti e che possa valorizzare e amplificare il loro messaggio alla società.

Gli occhi e i cuori a questo punto sono rivolti a Tokyo: quante medaglie può aspettarsi l’Italia dai suoi atleti paralimpici?

Sono uno scaramantico per natura. Lo ero da atleta e lo sono da dirigente sportivo. Posso solo dire che prima del rinvio dei Giochi eravamo convinti del fatto che sarebbe stata una spedizione vincente. In questi anni le Federazioni, gli staff tecnici, gli atleti e le atlete, i club sono stati messi nelle migliori condizioni di lavorare e hanno svolto una straordinaria attività di preparazione. Oggi molto è cambiato. La pandemia ha lasciato segni profondi. Qualcuno ha dovuto rinunciare per questioni anagrafiche, qualcuno per altre ragioni. Alex non potrà essere fisicamente con noi,  anche se sarà sempre presente nelle nostri menti e nei nostri cuori come straordinaria fonte d’ispirazione. Ma andiamo lì, ancora una volta, per giocarcela fino in fondo con la consapevolezza che il mondo guarderà ai Giochi come alla luce in fondo al tunnel. Se tutto avverrà come programmato significherà che saremo diretti verso giorni migliori.  



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