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Hikikomori. Il mondo in una stanza

Il mondo di Matteo sta tutto in una stanza, perché Matteo si è ritirato dalla vita sociale, ha deciso volontariamente di non andare più a scuola, di interrompere ogni relazione e attività, e di vivere recluso nella sua tana domestica passando il tempo davanti allo schermo del suo pc in compagnia dei videogiochi.

A cercare di aiutarlo interviene Sara, un’educatrice chiamata dal liceo del ragazzo e dai servizi sociali. La sfida è complicata: Matteo, che ha diciassette anni, deve rientrare a scuola entro tre mesi per non perdere di nuovo l’anno scolastico. Dopo una serie di incontri, con tenacia, pazienza e competenza, Sara riesce a fare breccia nella solitudine di Matteo, e il ragazzo rientra a scuola. Ma il successo dell’intervento viene messo in discussione da un passo falso della donna. Se non fosse che Matteo fa una scoperta sulla vita di Sara che potrebbe ancora evitare a entrambi il fallimento.

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È la trama del cortometraggio “Ho tutto il tempo che vuoi”, una storia intensa di dolore e speranza che in 26 minuti racconta il rapporto tra un adolescente hikikomori il  termine è giapponese e indica chi ha scelto di ritirarsi dalla vita sociale, raggiungendo livelli estremi d’isolamento e che in Italia si stima riguardi circa 100.000 giovani e una donna, una professionista, che tenta di aiutarlo a re-inserirsi nel mondo.

Il film è diretto da Francesco Falaschi (Quanto basta, Emma sono io) che lo ha co-sceneggiato con Alessio Brizzi, ed è prodotto da “Associazione culturale Storie di Cinema” in collaborazione con Rai Cinema, con il contributo di COeSO Società della Salute di Grosseto. Nei panni di Matteo c’è Luigi Fedele (Io ti cercherò, Quanto basta) e in quelli di Sara Cecilia Dazzi (La Porta Rossa, Habemus Papam).

Ho tutto il tempo che vuoi, che ha già ricevuto una decina tra premi e riconoscimenti, sarà disponibile dal 27 novembre su Raiplay in occasione della V Giornata Nazionale sulle Dipendenze Tecnologiche e Cyberbullismo, con Rai Pubblica Utilità che lo renderà accessibile per i non vedenti e i non udenti attraverso l’audiodescrizione e i sottotitoli.

“Avevamo lo scopo e l’esigenza di fare luce su una pratica tanto delicata e attuale, quanto pericolosa per la sua diffusione tra i giovanissimi”, dice Falaschi, che oltre ad essere regista e sceneggiatore è anche insegnante di lettere in una scuola superiore di Grosseto. “È necessario – aggiunge – portare avanti campagne di sensibilizzazione su condizioni o disagi sociali o psichici, anche col cinema e l’audiovisivo, sempre documentandosi: perché le immagini non solo sanno dare emozioni, ma stimolano curiosità e interesse su fenomeni dolorosi. E il cortometraggio in questo senso è uno strumento particolarmente fruibile”.

Ansia sociale paura del giudizio e vergogna

Hikikomori è un disagio adattivo descritto e osservato per la prima volta in Giappone, “oggi non è codificato come psicopatologia ma come una sindrome sociale – spiega Marco Crepaldi, psicologo presidente e fondatore dell’associazione Hikikomori Italia  – Utilizziamo la parola fenomeno per definirlo ma – aggiunge l’esperto – la patologia è evidente: parliamo di una forma di isolamento sociale peculiare, differente dalle altre, che ha come cardine l’ansia del giudizio, la difficoltà di adattarsi o la vergogna per non riuscire ad adattarsi. Vorremmo fosse riconosciuto come psicopatologia perché nelle sue versioni estreme è una psicopatologia: l’hikikomori grave si isola da tutti, anche dai genitori, dal web, ci sono giovani che non parlano più con i familiari e nemmeno comunicano con altre persone su internet. Esiste una potenziale deriva profondamente psicopatologica dell’hikikomori, che ha rischi depressivi e suicidari.

In Italia stimiamo possano essere affetti da hikikomori, considerate tutte le forme, circa 100mila adolescenti e giovani adulti, nel 75-80% almeno maschi, nella nostra esperienza è di sesso maschile fino al 90%”. 

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Uscire dal gioco, l’identikit dell’hikikomori

Alle medie e al liceo, quando le competenze relazionali sono necessarie per integrarsi con i pari, gli hikikomori non si integrano, fino ad abbandonare ogni attività. È come se a un certo punto dicessero: basta, smetto di giocare, continuate voi io esco dal campo. “In effetti la metafora del gioco descrive efficamente la situazione – riprende Crepaldi – Questi giovani ‘abbandonano il campo da gioco’ perché hanno funzionamenti sociali diversi, perché magari sono timidi, o sono plusdotati. I motivi sono tanti, ma comunque sono legati alla paura del giudizio e all’ansia sociale, al timore di essere etichettati come diversi e alla sensazione di non ‘sentirsi parte di’ “.

Quando allarmarsi

Hikikomori, come molti disagi psicologici, è un continuum che va da una condizione moderata, in cui si hanno difficoltà relazionali ma si continua ad andare a scuola e ad avere qualche amico, a una in cui non si è più in grado di legare con gli altri, e allora si comincia ad abbandonare tutto: prima le attività extrascolastiche e poi la scuola.

“Quasi sempre l’abbandono scolastico è il campanello di allarme per le famiglie, che solo allora si attivano. Ma i segnali ci sono prima del rifiuto della scuola: e sono la tendenza a stare in casa, a trascorrere molto tempo al computer soprattutto sui videogiochi, a stare svegli la notte e dormire di giorno. Ecco, quando i genitori colgono questi sintomi dovrebbero cominciare a interrogarsi e a riflettere, insieme alla  scuola, sulla possibilità di un percorso didattico alternativo che non preveda necessariamente la presenza in aula, e che eviti al ragazzo di finire in uno stato di burnout e di rifiuto definitivo dell’istruzione. Che non è dettato dalla mancanza di voglia di studiare – specifica Crepaldi – perché spesso gli hikikomori hanno anche buoni rendimenti scolastici. Il fenomeno degli hikikomori riguarda spesso figli di genitori con buone carriere, e con alte aspettative di realizzazione sociale, scolastiche per il figlio, o anche lavorative. Perché va detto che hikikomori riguarda anche giovani adulti, e qualche volta adulti: ci sono casi di uomini che per decenni vivono isolati in casa, dipendenti in tutto e per tutto dalle famiglie”.

Madri presenti e padri meno

A proposito di famiglie, sembra che quelle dei giovani hikikomori abbiano un pattern comune, in Italia come in Giappone, e come in generale in Occidente. “È così, nei contesti familiari di questi ragazzi ci sono elementi che sebbene non siano sempre presenti, ricorrono”, riprende lo psicologo. Per esempio? “Madri molto presenti, ansiose e con la tendenza all’apprensione e che a volte diventano eccessivamente pressanti rispetto agli obiettivi del figlio. Padri più deboli, figure più rarefatte, che non riescono a relazionarsi col figlio, che tendono a diventare marginali e a delegare, e che quando il problema emerge non sanno come aiutare: su oltre 3mila familiari che hanno contattato la nostra associazione e che fanno parte dei nostri gruppi di auto-aiuto per genitori che organizziamo gratuitamente in tutta Italia, le madri sono quasi la totalità. Molti nuclei familiari sono costituiti da una donna: la mamma, e da un uomo: l’hikikomori”.

Il ruolo di internet e il cyberbullismo

Si tende ad associare l’isolamento sociale con la dipendenza da Internet, ma in quale rapporto sono i due fenomeni? “Da studi a diposizione oggi possiamo dedurre che internet non è la causa dell’hikikomori. Ma la rete può avere un ruolo, che può essere negativo o positivo: positivo quando consente a questi ragazzi di mantenere i contatti col mondo, negativo quando instaura una dipendenza molto forte in particolare da videogiochi, che può aggravare la condizione: i ragazzi per non pensare e non passare il tempo a rimuginare sulle loro sofferenze finiscono per buttarsi nel mondo videoludico e per trascorrerci tutto il giorno diventandone dipendenti. Ma il videogioco non può essere considerato la causa primaria, semmai una conseguenza o una comorbidità dell’hikikomori, e se io risolvo il problema della dipendenza dai videogiochi o dell’iper-connessione a internet non risolvo la causa del malessere che sta a monte, e che è un’altra – ragiona Crepaldi –  Il bullismo invece, anche nella sua versione cyber, spesso è una concausa di questa forma di isolamento volontario”.

Covid, un anno senza abbracci

L’impatto, negativo, del Covid

Prima della pandemia il comportamento dell’hikikomori era palesemente anomalo agli occhi della comunità e dei familiari, ma le necessarie strategie messe in atto per arginare i contagi, potrebbero aver attenuato l’attenzione mediatica e sociale sul disagio: semplificando, il covid potrebbe aver mascherato, coperto, il fenomeno hikikomori. È così? “Il covid ha effettivamente favorito un abbassamento di tensione da parte delle famiglie, dei ragazzi e dei media che potrebbe comportare un aggravamento e una cronicizzazione incontrastata del fenomeno – spiega e conferma lo psicologo -. E  anche un aumento dei casi: molte più persone, parliamo naturalmente di quelle con predisposizione, hanno sperimentato uno sgravio di pressione con la dad o con il lavoro da remoto, concludendo che loro, in casa, stanno meglio. Ecco, tutto questo rischia di far salire i casi di hikikomori o di favorirne la cronicizzazione. Perché va detto che quando parliamo di hikikomori non parliamo sempre di una fase transitoria della vita: queste persone prima si ritirano volontariamente dal mondo e poi, se non si interviene, succede che non riescano più a uscire, rischiando forme depressive importanti e pericolose. In Giappone ci sono uomini isolati da decenni e anche da noi abbiamo casi di uomini in casa da più di 10-15 anni”, dice infatti Crepaldi.  Ma i genitori sono confusi, non sanno bene come gestire la situazione e spesso finiscono per peggiorarla, in genere usando la carota o il bastone a seconda del momento, e per frustrarsi oltremodo cosa possono fare? Cosa significa insomma intervenire?

Cosa possono fare o non fare i genitori

Il primo obiettivo è farsi percepire come alleati, quindi i genitori dovrebbero evitare di aumentare la pressione sui ragazzi, e non forzarli a fare quello che non vogliono o non riescono a fare, anche tornare a scuola. “Il che è controintuitivo, perché è chiaro, probabilmente naturale, che chi ha un figlio di 15-16 anni che abbandona la scuola si senta nel diritto, e anche nel dovere, di forzarlo a tornarci ma questo comportamento rischia di spezzare l’alleanza tra genitore e ragazzo, e di favorire la sua fuga anche dal genitore, oltre che dal resto”, avverte lo psicologo.

Quindi? “Quindi l’adulto deve fermarsi, e capire che il figlio è in quella condizione perché ha sentito una pressione su di sè e che questa pressione è diventata eccessiva. E poi deve cercare di trovare con la scuola, che deve imparare a mostrarsi sensibile su questi temi, un percorso alternativo che è possibilissimo attivare: può essere la dad, l’home schooling. Contemporaneamente bisognerebbe cercare di dare vita a un rapporto intimo col ragazzo, anche se è difficile, perché raramente i figli parlano con in genitori con intimità. Impedire ai ragazzi di andare in rete invece non ha senso: abbiamo storie di genitori che hanno distrutto computer e di figli che  hanno risposto con la violenza anche contro se stesso. Ha senso invece rivolgersi a uno psicologo, se il ragazzo rifiuta di andarci c’è anche una rete di educatori, formati sui disagi sociali, che vanno a domicilio per incontrare il ragazzo. Parallelamente gli adulti possono lavorare su se stessi”.

Lavorare anche su se stessi

E sì perché se un adolescente o un giovane adulto è in uno stato così doloroso e debilitante non è affatto detto che si tratti di un problema solo suo, potrebbe essere una questione di contesto. “Certamente, potrebbero esserci comportamenti di disfunzionalità in seno alla famiglia, quindi anche i genitori dovrebbero rivolgersi a specialisti. Noi come associazione abbiamo gruppi di genitori sostenuti da psicologi in tutta Italia. Primo, perché sono i genitori quelli che chiedono aiuto, i figli non lo fanno. Secondo, perché lavorando sulle madri e sui padri si può migliorare la condizione dei figli. Ma se l’ideale è rivolgersi a uno psicologo o a uno psichiatra che avessero chiaro il disturbo, questo non avviene sempre: i genitori si trovano ad avere percorsi di sostegno fallimentari, oppure costosi: sulla salute mentale lo stato non aiuta e non tutti si possono permettere psicologi sul lungo periodo”.   



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