I misteri di Achille Lauro: “Sono un uomo, sono una donna. Siamo tutto e siamo il nulla”

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Che il 2020 sia stato il suo anno è fuor d’ogni dubbio. Achille Lauro ha messo il suo marchio sui dodici mesi in molti modi diversi: con le ‘glamorose’ apparizioni sul palco di Sanremo, diventando “Chief Creative Director” di una casa discografica di rango come la Elektra, pubblicando due album in un anno (anzi quasi tre, se contiamo la grande quantità di inediti che contiene la riedizione di “1969”), facendo parlare di sé in ogni possibile occasione. Un anno che ha conquistato come cantante, musicista, artista e al tempo stesso opera d’arte, celebrity, scrittore, manager, modello, e forse anche qualcos’altro. Perché Lauro De Marinis, come recitano i suoi documenti d’identità, è molte cose diverse tutte insieme. Non prendetelo sotto gamba, non fatevi abbagliare dal glamour senza vedere cosa c’è sotto. È uno che scrive su Twitter: “Sono un uomo, sono una donna. Siamo tutto e siamo il nulla. ‘Siamo’, ma soprattutto ‘non siamo’. Siamo la generazione che riscrivera la storia”. E lui lo vuole fare con il suo corpo, con i suoi vestiti, con le sue parole. E la sua musica.

Ha compiuto 30 anni, quindici dei quali passati in mezzo alla musica, prima come ragazzino dietro al fratello maggiore che suonava punk, poi nell’universo “urban”, fatto di rap e trap, di elettronica e testi esagerati. E da trentenne è diventato una star della musica italiana. Una star diversa dalle altre, capace di salire sul palco di Sanremo vestito da San Francesco o da David Bowie, pronto a duettare con Anna Tatangelo e a citare Oscar Wilde, in grado di proporre un singolo estivo come Bam Bam Twist o una canzone per la colonna sonora della serie Baby come Maleducata. È un artista non prevedibile, non previsto, figlio di una rivoluzione musicale, quella in corso, che ha portato una generazione diversa a occupare la scena e a cambiare le regole del gioco.

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Lui, nei trent’anni passati, di vite ne ha vissute almeno un paio. Quella del figlio di una famiglia medio borghese, quella del “ragazzaccio” che si faceva cacciare da una scuola dopo l’altra, quella del giovanissimo componente di una comune creativa a Roma, quella del divo androgino e stiloso, quella dello scrittore, quella raccontata dai mille tatuaggi che ha sul corpo e sul viso. E in ogni vita ha trovato la sua strada, per arrivare ad oggi. “Sono anche stato fortunato”, ci dice, “quando sono andato a vivere con mio fratello Federico, in una sottospecie di comune dove passavano tanti ragazzi che scrivevano e suonavano, stiamo parlando del 2004/2005 a Roma, la scena underground urban stava diventando mainstream. C’era un grande collettivo a Val Melaina, nel quartiere di Montesacro a Roma. ll Quarto Blocco è nato nel 2007, c’erano musicisti, writer, creativi di ogni tipo. Tra quelli più grandi di me c’era il sogno del successo con la musica, iniziava sembrare possibile, stava succedendo attorno a noi. Io avevo 14 anni e scrivevo delle bozze, magari non canzoni, piuttosto degli appunti, emulando quelli più grandi di me ho iniziato a scrivere canzoni, in maniera naturale. C’è sempre stata in me l’idea di fare questo, andavo ai concerti con loro e quelle cento persone che li seguivano mi sembravano una moltitudine fantastica. Io ero il primo fan del collettivo Quarto Blocco, dicevo a loro, a mio fratello, “quando sfonderete io verrò con voi in tour, vi seguirò ovunque”. Era una situazione incredibile, loro registravano musica in camera, in questa casa fatiscentissima, senza magliette, liberi e elettrici. È così che è iniziato tutto.

Quindi suo fratello ha avuto un’influenza importante su di lei?

“Assolutamente sì, ha influenzato tutto, l’idea della musica, la sua applicazione, la voglia di far arrivare le mie cose agli altri, registrare, tra i quindici e i venti anni è stato importantissimo”.

Ci andava d’accordo?

“Ci andavo d’accordo come vanno d’accordo tutti i fratelli. Certo il fatto di vivere insieme ci teneva molto a contatto e questo faceva la differenza. Musicalmente il fatto che lui avesse un gruppo punk, con chitarra, basso e batteria ha contato molto, così accanto a Jim Morrison e ai Take That, c’erano anche i Rancid…”.

Le ha dato fiducia, credeva in quello che stava facendo?

“Sì, mi ha dato molta fiducia, mi ha spiegato come impostare le cose, come scrivere, mi ha dato consigli, indicazioni. Ma era anche molto duro, cinico. Ricordo che quando abitavamo ancora con i nostri genitori e lui nella sua camera aveva già le Roland, l’unica cosa che mi diceva era che facevo schifo. Ma è stato un bene, perché prima di espormi con qualcosa di mio dovevo avere un progetto che valeva la pena. Con lui avevo sempre un paragone, ascoltavo chi faceva musica e non solo la mia”.

Quindi possiamo dire che in questa crescita è contato anche l’amore.

“L’amore conta sempre. Anche il mancato amore, tutto l’amore, non solo quello tra uomo e donna, ma tutto l’amore che vivi e percepisci. In parte il mancato amore è stata una motivazione per iniziare a scrivere, mi ha aiutato a conoscere meglio il mio carattere, in una sorta di autoanalisi”.

È per questo che ha iniziato a scrivere?

“Ho avuto sempre l’esigenza di scrivere, non necessariamente di scrivere canzoni. Ho scritto sempre, ultimamente lo faccio ancora di più perché lungo la strada credo di aver imparato a scrivere. Scrivo di getto, parto da un tema, da uno spunto, da un’immagine, scrivo cinque pagine, poi estrapolo i concetti. Alla fine anche il mio ultimo libro è nato così, e da quelle pagine sono usciti concetti che ho usato nelle canzoni. Il vero problema è cercare di scrivere quello che senti realmente e trasformarlo in qualcosa di fico. È difficile, perché io scrivo i miei pensieri, scrivo ovunque, se mi vengono delle idee me le appunto per strada, o mentre sto chiacchierando con qualcuno. Poi le rileggo, le rielaboro, o le butto via”.

Scrivere libri, però, parte da un’esigenza diversa da quella di scrivere canzoni…

“Sì, sono due cose diverse. Scrivere libri mi dà un grande senso di libertà, perché non sei legato ai paletti in cui si muove necessariamente una canzone, anche se io a dire il vero mi sento libero anche tra quei paletti. In un libro, però, non hai confini, l’immaginazione ha tutto lo spazio che vuole, c’è la grafica, c’è il segno, qualcosa che rapisce l’occhio e non solo la mente. Mi affascina poter dire quello che voglio senza limiti. Con la musica è diverso, la musica è la musica, riesce a emozionare con i suoni ma ancora di più con la voce, che è uno strumento più diretto, immediato. Ogni canzone è un feeling, uno stato d’animo, che viene trasmesso in maniera completa a chi ascolta”.

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Ricorda il primo disco che ha comprato?

“Ah, difficile dirlo, i dischi già si compravano poco, la musica si scaricava. Però uno dei primi dischi che ho comprato è stato un album dei Bluvertigo. E poi mi ricordo di essere andato con mio fratello a comprare un disco di Marilyn Manson, mi piaceva molto, ma avevo anche la videocassetta del documentario sui Take That, tanto per dire che ascoltavo abbastanza di tutto”.

Quello che ascoltava suo fratello quindi aveva un peso?

“Credo sia vero nella vita di tutti, gli ascolti che si fanno in casa contribuiscono a costruire il tuo universo sonoro. La musica ha fatto parte sempre della mia vita perché lo era di mio fratello e dei miei genitori, ricordo mio padre in macchina che cantava Ancora di De Crescenzo. In linea di massima posso dire che la musica è sempre stata una buona amica nella mia vita”.

Come nasce una sua canzone, allora, dalla musica o dai testi?

“Dipende. Una canzone come C’èst la vie è stata scritta senza musica. A volte invece mentre sono in dormiveglia mi viene un’idea, mi alzo e scrivo tre pagine dalle quali poi alla fine traggo una canzone. Alle volte i pezzi nascono durante le session in studio. Oppure c’è un metodo: io ogni anno faccio un mese di fase creativa con i musicisti in studio, lì in studio troviamo un riff di chitarra, oppure facciamo una cosa con sound particolare e da queste cose prendono il via delle altre. Rolls Royce è un pezzo quasi punk londinese, sono partiti contestualmente il riff di chitarra e la voce. E poi ci sono le volte in cui le canzoni si scrivono da sole, una roba quasi mistica, ti arriva qualcosa di magico e tutto trova il posto giusto”.

Ci ha messo del tempo a trovare la sua strada, riascoltando “Dio c’è”, il suo disco di cinque anni fa, si vede che ancora non tutto era ancora chiaro…

“Sono d’accordo, all’epoca quel disco andava diviso in due, c’era la roba modaiola e anche qualche pezzo che è rimasto, Di nuovo maggio, Ora e per sempre, qualcosa che riproporrò. Ma bisogna ricordare che all’inizio del 2015 la musica italiana non era quella di oggi, quello che facevamo noi era diverso da tutto il resto. Anche nel mondo urban io ero visto dai puristi come un outsider, perché mettevo la camicia e i pantaloni larghi. Già allora non seguivo un filone o una moda, facevo come mi pareva. Avevo fatto un pezzo come La bella e la bestia, solo piano e voce, per il mio mondo era una follia…”.

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Il pezzo che ha cambiato tutto, per una grossa parte del pubblico, è stato il remix di Thoiry. Quando l’ha proposta dal vivo al concerto del Primo Maggio e in televisione, tutti hanno sentito che qualcosa stava cambiando.

“È un pezzo che ha segnato un cambio tra il vecchio e il nuovo. L’ho notato quando ho sentito il provino, ho capito che c’era il potenziale per qualcosa di nuovo. L’intera operazione del remix e del video è stata un segno di svolta. Una canzone è anche quello che uno vede, e in questa c’è l’immaginario vivo, giovane, l’immaginario hooligan, con uno spirito di rivolta. Era un flash mob reale, non finto, non c’erano comparse, c’era una storia, una chiamata alle armi dei giovani. A piazza Duomo a Milano eravamo tre, quattromila persone, e avevamo una sola telecamera per girare tutto. Era pura realtà, cinema neorealista, abbiamo  filmato tutto quello che succedeva in diretta. Mi sono accorto che era una bomba quando sono tornato a casa e ho guardato le riprese, ho detto questo può cambiare tutto, lo abbiamo montato la notte stessa. C’era tutto in quel video, un suono nuovo, un documentario, una rivolta, un flash mob, il crossover, la musica sudamericana, quella francese, l’arte, i giovani. Tutti i pianeti si erano allineati”.

Contano molto anche le persone con cui lavora? Come ha scelto i suoi collaboratori? Alcuni come Gemitaiz, Frenetik e Orang3 o Boss Doms sono suoi amici…

Frenetik e Doms sono figure importanti per me al di là della musica, avere vicino persone con le quali c’è un confronto è fondamentale, è qualcosa che può sempre dare vita a idee nuove. Il primo in assoluto con cui ho avuto un rapporto stretto è stato Frenetik, con il Quarto Blocco. Lui è il primo che mi ha detto ‘vieni da me, registro io’. Io avevo un’attitudine sguaiata e lui mi diceva di controllare la voce, che doveva essere più calda, che dovevo capire le interpretazioni. Registravamo in un centro sociale di Roma, al Brancaleone, uno studio diroccato e mi sembrava fantastico. Tante cose le ho fatte con lui, ha una visione e un talento notevoli. Doms da Ragazzi madre in poi è il mio partner, seleziono con lui il tempo e i modi, e questo creare per me è la vita”.

Che peso hanno le sue scelte in termini di immagine?

“Inizialmente parlavo talmente di me nelle canzoni che quasi mi vergognavo ad apparire, facevo fatica a farmi vedere, addirittura alle volte evitavo. Poi mi è diventato chiaro che musica è anche quello che vedi, e quello che mostri è anche quello che sei. E pian piano tutto è diventato anche più semplice, quello che faccio dal vivo davanti a tre o quattromila persone posso farlo anche su Rai Uno e lo vedono in milioni. Ho pensato, dopo Sanremo del 2019, che non aveva senso andare in televisione con il freno tirato, e che dovevo fare tutto quello che mi veniva in mente per dare di me l’immagine che volevo, senza mediazioni. Nel mio concerto vado oltre, c’è il costume, la costruzione maniacale, c’è il bacio, perché non rifarlo a Sanremo? E poi il palco ha bisogno di rispetto, l’attore non andrebbe in scena senza costume, il pubblico vuole la magia. La differenza è che l’attore interpreta qualcuno, io no. Anche vestito da San Francesco ero me stesso, quando sono in scena sono quello che sono, sia che indossi la parrucca o no, sono io, non recito una parte ma indosso il vestito della canzone. E se la canzone è la mia anima, il vestito è la stessa cosa”.

Di chi si fida per le sue scelte?

“In tutto il percorso c’è sempre un confronto, è il cuore di quello che faccio. Tutto è pensato nei minimi particolari, quindi ogni cosa è frutto di discussioni, idee, cambiamenti, tanti mesi di lavoro che portano poi magari a una performance di quattro minuti come quelle sul palco del Festival. Ho ricevuto molto aiuto da tante persone, alle volte anche in maniera inattesa. Credo profondamente nei rapporti umani, c’è sempre qualcosa da imparare dalla gente che conosci e se sei disponibile ci sarà sempre qualcuno disposto a condividere qualcosa con te. Così alla fine in tutto quello che faccio non c’è nulla di marketing o di pubblicitario, non devo vendere prodotti, sono solo me stesso, in ogni modo possibile”.

Prima di lei in Italia lo hanno fatto in pochi, pochissimi…

Renato Zero è un’icona italiana, ha fregato tutti di trent’anni, noi non ci siamo inventati niente. E non è nemmeno vero che parlava a un pubblico diverso dal mio, parlava agli stessi ma trent’anni prima. Adesso è più facile, quando lo faceva lui era un periodo storico molto diverso, un’Italia molto più tradizionale di quella di oggi, era un emblema di libertà di espressione, di libertà sessuale. Io sono fortunato, nel 2020 incarno qualcosa che le persone sentono, l’esigenza di esprimere se stessi e di avere qualcuno che li rappresenti”.

È un messaggio politico? Scrive su Twitter “Siamo figli di una generazione oppressa da politiche xenofobe e razziste. Costretti a scendere in piazza per ricordare al mondo di essere ‘umani’. Figli di una generazione stuprata nella dignità e violentata nella libertà. Ma noi liberi”. Fare scelte come le sue significa prendere delle posizioni politiche…

“Sì, certamente sì, è un messaggio politico. Al di là degli schieramenti, non la politica intesa come partiti o governo, ma la politica della vita. Prendere posizione pubblicamente, rappresentare qualcosa che vada oltre il senso comune, un ideale forse. È un momento in cui credo ci sia bisogno di questo. Anche Thoiry era politica, mettere la musica in piazza, per strada, a Milano, dimostrare che i giovani esistono e che possono fare cose come quella, in un momento in cui sembrano particolarmente lontani dalla politica, è un messaggio forte. Arrivare a dire ‘io esisto per come sono’ non è scontato nell’Italia di oggi. E mi interessa che quello che dico sia chiaro, anche nel modo in cui mi vesto, indossando capi di abbigliamento femminili, truccandomi, ribadendo che maschilismo e omofobia non fanno parte del mio universo, è il mio modo di dissentire e ribadire che alcune convenzioni dalle quali si generano discriminazione e violenza andrebbero eliminate per sempre”.

Si sente un ribelle?

“Non sono un ribelle. Non ho avuto una vita normale, ho sicuramente vissuto una situazione familiare delicata, i miei si sono allontanati per anni, ma mi fanno ridere molte delle cose che leggo del mio passato scritte da giornalisti che hanno una fervida immaginazione”.

Rapporti difficili anche oggi?

“Sono contento di quello che ho fatto io nella mia carriera, sono contento di quello che ha fatto mio padre nella sua. Come ho detto altre volte abbiamo avuto un rapporto discontinuo e anche difficile. Mia madre c’è sempre stata. Tutti e due hanno combattuto molto, ma quello che è successo forse dimostra che le cose si aggiustano”.

È stato faticoso?

“Di certo non ho fatto un percorso facile, quindi quello che sono oggi rappresenta anche quella cosa lì, le situazioni difficili dei ragazzi. E non è una faccenda di periferia o centro, situazioni in cui si trovano tanti ragazzi, che sono distanti dai genitori, anche per motivi di lavoro, tutti i giorni. Ragazzi madre parlava di questo, di ragazzi che si crescono da soli, come è capitato a me, che sono cresciuto avendo come figura paterna un fratello e tanti amici. Detto questo non mi piace considerarmi un ribelle, ho solo assecondato quello che è successo nella mia vita. Ma sono stato fortunato, ho capito prima tanti altri quello che volevo essere, avrei potuto non capirlo, avrei potuto arrivare a trent’anni e non saperlo”.

Lei ha corso qualche rischio di perdersi?

“Sì, ma i rischi sono ovunque. Lo ripeto, non è un problema di periferia o di centro, la vita in mezzo alla strada la fai ovunque, la droga è ovunque, il pericolo è ovunque. il problema vero per tanti ragazzi è non sapere cosa fare nella vita, non avere una passione, è lì che ti involvi e fai la strada verso il burrone. Il problema è non avere un posto nel mondo, che è peggio di averne uno che non ti piace, perché non averlo e non sapere cosa sei ti porta ad autodistruggerti. Io ho preso coscienza subito, mi sono detto ‘davvero voglio essere come le persone che mi stanno intorno? Davvero voglio essere niente?’. E ho iniziato a fare musica, in maniera anche ossessiva, ma tutto quello che ho fatto mi ha portato dove sono oggi”.

A diventare direttore creativo di una multinazionale discografica…

“Ero già direttore creativo di me stesso, quindi diciamo che è un punto di arrivo di un percorso”.

E questo percorso dove la porterà?

“Per me la musica è la cosa fondamentale. Ho altri album già pronti in tasca, ho tante cose da far ascoltare, le cose più belle che abbia mai scritto, non vedo l’ora di presentarle. Poi ci sono i concerti, l’aspetto live è fondamentale, il contatto caldo non freddo con la gente. È stato un problema spostare tutti i live a causa della pandemia, eravamo pronti a raccogliere i frutti di tanti anni di lavoro e condividerli con il pubblico. Ma mi inventerò qualcosa per fargli vivere l’esperienza in qualche altro modo. E dato che stavamo riempiendo il secondo Palazzo dello Sport a Roma, magari faremo direttamente l’Olimpico senza passare dal via…”.

Alcune cose che ha scritto in passato le rifarebbe?

“Crescendo si cambia e si dicono cose diverse. Le prime cose che facevo erano underground e introspettive, il mio primo mixtape era quasi una preghiera, il mio stile non è stato mai troppo spaccone, era intimo anche quando aveva un’attitudine più violenta. Adesso penso ad altro, non mi interessa più dire che sto sulla panchina a val Melaina. I miei amici sono ancora quelli ma siamo tutti cresciuti e sono contento di essere cresciuto, sinceramente”.

E quindi cosa accadrà in futuro?

“Negli ultimi mesi ho inaugurato i miei nuovi uffici con due studi di registrazione a Milano. Abbiamo aperto una società, @MK3, newCo che si occupa di scouting e management e che ha sottoscritto un importante accordo discografico con la Warner Music Italia. La stessa Mk3 è entrata prepotentemente anche nel mondo degli eventi e insieme alle società Friends&Partners, leader nel mondo dei live, e Musica&Parole, leader nel mondo del club, dà vita a DOGMA95 srl, un’agenzia di booking che punta a gestire il mercato italiano degli showcase e degli eventi privati. Ora come Chief Creative di Elektra Records mi preparo per tanta nuova musica. E mai come questa volta sento la mia musica così mia”.

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