I ricchi non pagano le crisi

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Non è un mistero che, in questi anni di crisi continue, i ricchi siano stati colpiti meno duramente di tutte le altre componenti della società. Il recente rapporto pubblicato da Oxfam ne è l’ultima conferma. Nel 2020-21, sostiene Oxfam, l’1% più ricco della popolazione del mondo ha incamerato il 63% della nuova ricchezza creata, distanziandosi ulteriormente dal resto della popolazione. Si tratta di un processo globale, che però corrisponde a quanto osservato localmente in molti Paesi, Italia inclusa.
Da noi, stando alle stime disponibili, nel 2021 l’1% più ricco della popolazione deteneva il 23.3% della ricchezza complessiva. Nel 2019, alla vigilia della pandemia di Covid-19, era solo il 22%. Se andiamo più indietro nel tempo, fino alla crisi del debito sovrano del 2010-11, troviamo la stessa tendenza: dal 15% del 2010 al 19% del 2012. A inizio millennio, nel 2002, la quota dell’1% più ricco degli italiani era circa l’11%: meno della metà dei livelli attuali.

I ricchi dunque, in Italia come nel resto dell’Occidente, sembrano essere riusciti a costruire una notevole resilienza rispetto a crisi di vario genere: economico-finanziarie, pandemiche, e anche (aspettiamo i nuovi dati per confermarlo) quella in corso innescata dall’invasione russa dell’Ucraina. Non vi è nulla d’intrinsecamente sbagliato nel fronteggiare con successo le crisi; d’altra parte, al concetto di “resilienza” viene solitamente riconosciuta un’accezione positiva. Tuttavia, l’esperienza storica fa riflettere.
In uno studio sulla Repubblica di Venezia ho mostrato come l’eccezionale resilienza economica di élite capaci di preservare sempre e comunque la propria ricchezza fosse costruita anche su di un sistema fiscale che le avvantaggiava sistematicamente. In una repubblica patrizia come Venezia, le élite economiche coincidevano con quelle politiche – ma, se allarghiamo lo sguardo all’intero Occidente e ad altri sistemi politici, fino almeno alla prima metà del Novecento si riscontra un legame inverso tra la maggiore resilienza di fronte alle crisi della società nel suo complesso, e la capacità dei più ricchi di proteggere la propria quota di ricchezza.
Questo, non perché i ricchi fossero più esposti ai rischi diretti delle crisi, ma perché erano regolarmente chiamati a contribuire in proporzione maggiore degli altri a finanziare le politiche anti-crisi.

Il sospetto è che tale legame sia ancora valido. Se così fosse,allora la (storicamente eccezionale) capacità dei ricchi di proteggere e anzi incrementare la propria quota di ricchezza durante le crisi recenti potrebbe essere stata pagata dalla collettività, divenuta meno resiliente di quanto non avrebbe potuto essere. Il meccanismo è chiaro se si considera che oggi, in Occidente, i ricchi non sembrano disposti a contribuire di più (tramite tassazione, non beneficenza) durante le crisi, nemmeno in via temporanea.
Così facendo, però, i ricchi vengono meno a quella che, dal tardo Medioevo a oggi, è stata considerata una loro funzione sociale specifica: farsi tassare in tempo di crisi. Il rischio che ne consegue è quello di crescenti tensioni sociali, nel contesto di una società sempre più diseguale e socialmente immobile. L’unico modo di risolvere, o almeno moderare, il problema sarebbe ripensare i sistemi fiscali nella direzione di una maggiore progressività (che non vuole affatto dire “più tasse per tutti”).

Non pare, però, che al momento vi sia la volontà politica di farlo. Anzi: al centro della discussione rimangono la flat tax (riforma indubbiamente e inevitabilmente “pro-ricchi”) e misure di sostegno ai poveri che, per quanto necessarie in tempi di crisi, assomigliano più a una forma di beneficenza di Stato che a un tentativo di risolvere il problema. È un mix di politiche che sarebbe andato benissimo in una repubblica patrizia del Seicento, ma che non corrisponde agli ideali di una “Repubblica democratica fondata sul lavoro”[email protected]
 

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