I tangentisti non fanno outing si stanano solo con le intercettazioni

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Caro Direttore, nell’editoriale di Francesco Merlo dal titolo “Il ministro di astio e giustizia, Nordio fa tornare l’Italia ai tempi di Tangentopoli”; si fa riferimento a un’inchiesta della quale (anche) io mi occupai diversi anni fa. Ebbene, è doveroso ricordare come la così detta “inchiesta Vallettopoli” – definita nel testo “sgangherata” – si sia conclusa con condanne (passate in giudicato ed eseguite) irrogate al principale imputato per diverse ipotesi di estorsione consumata e tentata; quelle vicende riguardanti – si legge nell’articolo – “…donnine, droga, yacht e transessuali…”, oggetto delle intercettazioni da me disposte, sono state inserite negli atti non certo per ragioni di voyeurismo giudiziario, ma in quanto poste alla base di richieste giudicate di natura estorsiva, non solo da me che mi occupai delle indagini, ma anche e soprattutto dai numerosi giudici di diverse autorità giudiziarie che, in primo, secondo e terzo grado, hanno riconosciuto la colpevolezza dell’imputato. Tuttavia, quello delle intercettazioni è un tema complesso e delicato, affrontato – a mio avviso – almeno in alcuni casi non senza un pizzico di ipocrisia e con altrettanta superficialità.

Limitare l’uso delle intercettazioni, in particolare per i reati commessi dai così detti “colletti bianchi”, sarebbe una scelta assolutamente sbagliata e con effetti irreversibili: impedirebbe, di fatto, ogni possibilità concreta di perseguire tali fatti criminosi. Le intercettazioni (comprese quelle ambientali espletate tramite il così detto trojan) costituiscono infatti l’unico mezzo di ricerca della prova utile e validamente utilizzabile contro la corruzione, il più diffuso dei reati contro la pubblica amministrazione. A meno di non immaginare che un corrotto o un corruttore decida spontaneamente e improvvisamente di presentarsi innanzi al pubblico ministero confessando di aver corrotto o di essere stato corrotto, oppure decida di effettuare un bonifico bancario indicando, in chiaro, una causale del tipo “tangente pagata al pubblico ufficiale tizio per l’aggiudicazione di un appalto”; se ciò un giorno dovesse accadere, l’eventuale protagonista di una simile iniziativa meriterebbe, prima ancora della galera, l’interdizione per incapacità di intendere e di volere. D’altra parte, i giornalisti hanno le loro ragioni quando rivendicano il dovere di pubblicare ciò che è riportato nei provvedimenti giudiziari, in particolare quelli depositati: è ben possibile che siano citati fatti privi di rilevanza squisitamente giuridico penale, considerati, invece, rilevanti per altri profili considerati di interesse pubblico.

È proprio questo il “nodo gordiano” di una questione che vede i magistrati, primi tra tutti quelli del pubblico ministero, chiamati a un lavoro che richiede grande senso di responsabilità. Se non si può e non si deve limitare la facoltà dei giornalisti di pubblicare il contenuto dei provvedimenti giurisdizionali, appare, allora, fondamentale che negli atti (destinati, prima o poi, a divenire pubblici) i magistrati inseriscano solo riferimenti a fatti e circostanze strettamente ed esclusivamente attinenti all’oggetto del procedimento. Il provvedimento giurisdizionale non è, e non deve essere, un elaborato nel quale il magistrato (pm o giudice che sia) scrive e inserisce la prima cosa che gli viene in mente, magari lasciandosi andare a giudizi personali di matrice etica; la continenza è il primo e più importante dei requisiti che un atto scritto da un magistrato deve avere. Anche in quelle parti in cui, necessariamente, l’estensore si deve soffermare sugli aspetti riguardanti la “personalità dell’indagato/imputato”, è doveroso rimanere saldamente ancorati all’oggetto del processo. La riforma Orlando sulle intercettazioni, con l’istituzione presso gli Uffici giudiziari di un “archivio riservato”, ha rappresentato un decisivo passo avanti. Il resto è rimesso al senso di responsabilità degli esseri umani espressione delle istituzioni. Ma né una riforma che limiti l’uso delle intercettazioni, né, tanto meno, una riforma che limiti la pubblicazione delle stesse, servirà a qualcosa, se non a generare “rancori” di cui, in tutta sincerità, non si avverte alcun bisogno.

La risposta di Merlo

Caro Woodcock, con quella sola parola, “sgangherata”, ho voluto dire che lei ne ha combinate di tutti i colori. (francesco merlo)

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