Enrico Letta e Giorgia Meloni tornano a incontrarsi per discutere e magari litigare. Accadrà mercoledì nell’ambito di un convegno organizzato dalla fondazione Farefuturo, collegata a Fratelli d’Italia. Non una grande notizia, si dirà, se non fosse per la relativa frequenza con cui queste occasioni tendono a ripetersi: almeno se le confrontiamo con l’assenza di confronti tra il segretario del Pd e gli altri due personaggi del centrodestra, Salvini e Berlusconi. Del resto si potrebbe quasi dire che negli ultimi tempi la stessa Giorgia Meloni veda più volentieri il capo della coalizione avversaria anziché i suoi due partner della destra.
Campo largo o campo frastagliato
In parte, è ovvio. Pd e Fd’I sono oggi i due partiti in migliore salute, pressoché appaiati nei sondaggi. In un certo senso la guerra di Putin in Ucraina ha creato una simmetria. Per un verso Letta ha assunto una posizione filo-atlantica molto netta, a costo di scontentare una frangia del Pd oltre, come sappiamo, ai Cinque Stelle di Conte (ma non quelli fedeli a Di Maio). Per l’altro, anche la sua interlocutrice sta facendo chiarezza rispetto alle numerose zone d’ombra del suo schieramento.
I 5Stelle non faranno cadere Draghi
Mentre Salvini fatica a riaversi dalla disastrosa puntata in Polonia e Berlusconi solo ieri si è deciso a condannare le imprese dell’amico Putin, la leader di Fd’I non ha esitato a schierarsi dalla parte dell’Ucraina in nome del richiamo nazionalista. La sua idea dell’Europa non coincide con quella di Letta, naturalmente, ma circa la fedeltà alla Nato non ci sono differenze significative. Ne deriva che sulla politica estera e di difesa un partito d’opposizione come Fd’I si trova più vicino alla linea di Draghi di quanto non siano la Lega e i 5S amici di Conte, che invece fanno parte della maggioranza.
L’opacità rossobruna tra Kiev e l’Occidente
C’è poi un secondo aspetto meno evidente. Letta e Giorgia Meloni sono abbastanza d’accordo nel respingere le suggestioni di un ritorno al sistema proporzionale. In vista del voto politico del 2023 (o magari prima, chissà), entrambi ritengono di poter trarre il massimo vantaggio dalla legge attuale, mentre una soluzione in stile prima Repubblica finirebbe per condizionarli in favore dei rispettivi, infidi alleati. Il segretario del Pd ha quindi interesse a vedere Meloni primeggiare a destra; e quest’ultima ha un interesse convergente a misurarsi con il capo del centrosinistra: è funzionale alla sua legittimazione e inoltre l’aiuta a fare i conti con le manovre di Salvini, desideroso di stringere un rapporto privilegiato con Forza Italia per bilanciare l’indebolimento leghista e difendersi dall’ascesa di Fd’I.
È curioso come tale evoluzione sia simile in apparenza a quello che sta accadendo in Francia. Quasi alla vigilia del primo turno delle presidenziali, si ripropone il duello tra Macron e Marine Le Pen. Il primo interprete di un “centro” dinamico in grado di assorbire una porzione dell’elettorato di destra moderata, nonché di porsi come alternativa a una sinistra povera di idee e iniziative. La seconda capace, a quanto sembra, di prevalere con la forza del mestiere sulla “nuova destra” aggressiva di Zemmour e sul fallimento della candidatura Pecresse.
La differenza con la Francia è che da noi non esiste una figura paragonabile a Macron, mentre Giorgia Meloni ha preso per tempo le distanze da Le Pen, i cui opachi contatti con la Russia di Putin la rendono più simile a un Salvini francese. Tuttavia l’esito non scontato del confronto a Parigi avrà inevitabili riflessi sul quadro italiano.
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