Il fattore campo non è itinerante: nemmeno i tifosi aiutano le squadre di casa

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ROMA – È durata talmente tanto l’assenza dei tifosi dallo stadio, che abbiamo finito per dimenticare la loro funzione principale. O forse è solo l’ultimo, straniante effetto del nuovo calcio post-pandemico. In questi campionati Europei itineranti, i primi in cui non viene rappresentato un Paese ospitante (si gioca a Baku anche se l’Azerbaigian non si è qualificato) l’unica cosa certa è che giocare in casa non è più un vantaggio. Non per tutti, o forse sarebbe meglio dire quasi per nessuno.

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L’illusione di Olimpico e Wembley

I giochi sono iniziati con la rumba imposta dall’Italia alla Turchia in un Olimpico festante: è venuto inevitabile farci contagiare dalle suggestioni di Italia ’90, quando anche la spinta della gente trascinò la squadra a un passo dalla finale. E quando sotto il sole di Wembley l’Inghilterra si è portata a casa un successo sofferto contro la più prestante Croazia, pareva davvero che il fattore casalingo comune a molte partecipanti dovesse trasformarsi in uno sky-pass, un lasciapassare per il paradiso. Ma poi sono trascorsi i giorni, e a chiusura del primo turno le squadre capaci di vincere nel proprio stadio, nelle proprie città, sono state soltanto tre: a Italia e Inghilterra s’è aggiunta l’Olanda, vincente alla Johan Cruyff Arena ma solo dopo essersi fatta rimontare due gol dall’Ucraina.

In 66mila allo stadio senza mascherina: a Budapest prove di normalità

La Puskas Arena di Budapest è l’unico degli undici stadi dell’Europeo itinerante in corso in cui è previsto il 100% della capienza. Così, per l’esordio dell’Ungheria contro i campioni in carica del Portogallo, i padroni di casa sono sostenuti da 60mila tifosi (seimila i portoghesi). Vicini gli uni con gli altri e senza mascherine. Prove di normalità dopo più di un anno di pandemia. Per entrare, oltre al biglietto, è stato necessario mostrare ai tornelli un braccialetto Covid, ottenuto grazie al certificato di vaccinazione o al risultato negativo di un tampone svolto nelle 72 ore precedenti l’inizio della partita. Coreografie, striscioni, bandiere, fumogeni: un colpo d’occhio emozionante dopo mesi di spalti deserti.

L’effetto pandemia continua

Al netto del pari senza gol della Spagna – una squadra che da tempo fatica a rompere le muraglie avversarie – maturato nel terzo stadio di Siviglia contro la Svezia, tutte le altre padrone di casa hanno visto accendersi la luce rossa della sconfitta. Il bilancio è impressionante: i paesi ospitanti, hanno raccolto 3 vittorie, un pareggio e 5 sconfitte. Come se, nonostante la riapertura (seppure limitata) degli stadi, permanesse la tendenza che ha caratterizzato i campionati dall’inizio della pandemia: la vertiginosa riduzione del fattore campo.

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Tra drammi e propaganda

Il braccio di ferro tra Germania e Francia sarebbe potuto finire con un risultato più netto, ma nonostante il ko i tedeschi, a Monaco di Baviera, sono rimasti in partita fino all’ultimo degli 8 minuti di recupero. Sconfitti sì, ma senza naufragi. La prima a cedere davanti al proprio pubblico è stata la Danimarca: certo non è per questo che verrà ricordata la partita con la Finlandia, ed è inevitabile che il dramma di Eriksen abbia pesato profondamente sulla sconfitta dei danesi a Copenaghen. Stipare lo stadio di Budapest al massimo della capienza è servito a Orban come manifesto della sua propaganda politica, ma non all’Ungheria, rasa al suolo da Cristiano Ronaldo. Un 3-0 che ha ricalcato quello del Belgio alla Russia nello stadio dello Zenit San Pietroburgo: altra padrona di casa a cui l’impegno domestico non ha garantito benefici. Ad Hampden Park la Scozia non perdeva addirittura da 7 partite (l’ultima col Belgio), eppure il teatro di Glasgow ha trasformato Patrick Schick in una replica ceca di Zidane, che sullo stesso prato decise una finale di Champions. Quasi che, dopo tutti questi mesi senza pubblico, quel rumore carico di aspettative, sia diventato un peso piscologico insostenibile, per chi dovrebbe offrire una risposta.

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