Il paradigma del bidet e la vita nelle carceri congestionate

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“Con una suora portiamo dei vestiti a un detenuto, delle coperte ai dializzati del reparto san Paolo e do un passaggio a casa a Gino che ha avuto un permesso premio di sette giorni”. Così racconta Samuele Ciambriello, Garante dei diritti delle persone private della libertà per la regione Campania. E già questo dà la misura di cosa sia effettivamente il carcere, se lo osserviamo dal punto di vista dei bisogni elementari non soddisfatti e dei diritti fondamentali non tutelati. E si tratta di cose note. O meglio: considerate a tal punto conosciute da non essere più citate perché parti di una fisiologia detentiva che si dà per fatale e irredimibile.

Basti pensare (il suggerimento è dell’avvocata Maria Brucale) al “paradigma bidet”: come è possibile che, nell’anno di grazia 2022, nemmeno nelle sezioni femminili delle prigioni italiane vi sia quell’indispensabile apparecchio igienico? Se volessimo immaginare, noi liberi, che cosa sia davvero la reclusione, per bruttura e ignominia, pensiamo a una intera vita “senza bidet”. E – per una buona parte delle celle del sistema penitenziario – con cesso “alla turca” e, in genere, esposto alla vista.

È questo il luogo, l’ambiente, l’arredamento domestico dove 54.134 detenuti e 36.939 poliziotti penitenziari trascorrono la loro esistenza quotidiana nel pieno della pandemia da Covid. Parlare di sovraffollamento, in tale congiuntura, può risultare persino futile: parola più esatta sarebbe congestione perché è quanto richiama quel sovrapporsi e intrecciarsi e premere di corpi e quel combinarsi di effluvi, sudori, umori, deiezioni, odori, dove saltano tutte le regole igienico-sanitarie e tutte le misure di sicurezza previsti dai protocolli anti-covid.

Non stupisce, di conseguenza, che il Covid si diffonda nuovamente nel reparto del 41-bis all’interno del carcere milanese di Opera. “Nell’istituto di Opera sono diversi i detenuti positivi al 41-bis, delle cui condizioni di salute, peraltro, i familiari non hanno alcuna notizia. Esattamente come accaduto nel mese di novembre del 2020”: anche all’epoca una gravissima carenza di informazioni, che rasentava la censura, nonostante che tra quei detenuti si riscontrassero “gravi patologie pregresse come il tumore”. A scriverlo, non smentito ieri né oggi, è Damiano Aliprandi, una delle più tenaci e assidue “sentinelle” di quanto accade nelle nostre prigioni, insieme ad altri giornalisti del Dubbio e del Riformista come Angela Stella e Sergio D’Elia; e come quel pugno di esponenti politici che rispondono ai nomi di Rita Bernardini, Walter Verini, Riccardo Magi, Roberto Rampi, Roberto Giachetti, Gennaro Migliore, Paolo Siani, Alfredo Bazoli, Alessandro Capriccioli (e mi scuso se dimentico qualcuno); e i Garanti dei diritti delle persone private della libertà come Stefano Anastasia, Monica Gallo, Bruno Mellano, il già citato Ciambriello e gli altri, il cui lavoro oscuro, e spesso ostacolato con tutti i mezzi, consente che dal carcere non emergano solo gli orrori ma anche i tentativi di porvi rimedio

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