Il patto d’aula violato

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Ci sono due scene. E anche se non accadono entrambe in un interno scolastico — di una c’è una registrazione rubata in un’automobile, dell’altra un video che subito diventa virale sui quei canali di maldicenza che possono essere i social network — non importa. Una si svolge in un liceo romano, e l’altra in un istituto superiore di Sesto Fiorentino, ma la geografia è inessenziale, il punto è la scuola, come istituzione e come miniatura del mondo.

La prima scena riguarda la relazione presunta, di natura amorosa o sessuale, tra uno studente e la preside del liceo romano, la seconda scena riguarda una relazione effettiva — una minaccia, una vendetta che si esaudisce — tra un professore di matematica e un suo studente. Nella registrazione audio lo studente rompe con la preside, nel video — girato dal telefonino dei compagni di classe, presenti, in quel momento in aula — lo studente punta una pistola giocattolo al professore di matematica accusandolo di avergli dato troppe note. Nella mia testa, queste scene sono la stessa scena che racconta la violazione di un patto d’aula, il fraintendimento del significato di autorità e relazione. Di apprendimento e insegnamento. Apprendimento e insegnamento sono simmetrici, nonostante si presupponga che chi insegna ne sappia di più. Apprendimento e insegnamento sono due facce di una stessa medaglia, come i diritti e i doveri. Quando apprendimento e insegnamento si disallineano, come quando diritti e doveri si disallineano, non c’è medaglia e non c’è premio. Non c’è più niente.

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L’autorità della scuola è la reciprocità, ed è la stessa della democrazia. L’autorità della scuola è la relazione, ed è la stessa della vita. Tuttavia, in un mondo in cui la vita degli studenti, con famiglie precarie in qualche modo o in tutti, assomiglia a quella degli insegnanti essi stessi precari, dal punto di vista professionale o in altri, quale autorevolezza è possibile percepire se sei studente? E quale autorevolezza è possibile assumersi se sei professore o preside. Il professore di matematica, per vero, è riuscito a disarmare lo studente e forse il ragazzo non sarebbe stato accusato di interruzione di pubblico servizio e minacce se non ci fosse stato il video. La registrazione della rottura forse è stata rubata. Non voglio discutere il merito — anche se il merito c’è — ma il metodo, l’abitudine a interrompere la confidenza, la rottura cioè di quella relazione che è al centro della possibilità di imparare e vivere. L’evento che sostituisce sempre, anche a scuola, la manutenzione.

In Enigma. Requiem per Pinocchio del Teatro Valdoca, tra i tanti versi di Mariangela Gualtieri che mi sono rimasti impressi ci sono questi: “Che cosa insegnarti se non l’amore?/Ma che cos’è l’amore?/Solo lo puoi sapere quando diventerai ciò che sta davanti a te/.. /E dopo?/Dopo diventa uno con tutto quello che c’è/Ma così non sarò mai nessuno/Sì, questo è il meglio che ti possa capitare”. Così, in questa meravigliosa rivisitazione, dal punto di vista della lumaca, di quel crudele romanzo di scuola e distrazione che è Pinocchio — uno dei pochi supereroi italiani — vedo quell’amore che non c’entra col sesso e con l’odio, che pure dell’amore sono forme, quell’amore di non essere nessuno, di essere cioè cittadini e cittadine, quell’amore di stare in relazione che è stato il grande progetto della scuola italiana, compito dismesso, schiacciato da una società dove bisogna essere qualcuno. Che obbliga come un cappio di diventarlo. Qualcuno che finge di sparare, qualcuno che usurpa una posizione di potere. Qualcuno che per essere tale dismette la possibilità e il sollievo di essere uno fra tanti — una generazione, per esempio — contribuendo a una idea di nazione. Diventare l’altro è la missione laica della scuola. Diventare l’altro è il patto d’aula inviolabile. Diventare l’altro è, come scrive Gualtieri, il meglio che ci possa capitare.

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