Il sangue d’Europa e la destra

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A che punto siamo? Forse è arrivato il momento di chiedercelo, senza rassegnarci a scivolare dentro linguaggi, gesti, azioni, abitudini e luoghi comuni che non avremmo tollerato soltanto pochi anni fa. Man mano che ci avviciniamo alle elezioni i sondaggi certificano le intenzioni di voto dei cittadini, ma non rilevano le inclinazioni del contesto, le tendenze dell’ambiente sociale, la deriva culturale e psicologica che avviluppa il nostro Paese e l’Europa, e pesa sugli elettori forse più delle azioni di propaganda dei singoli partiti.

È qui che è avvenuta negli ultimi anni la grande metamorfosi che oggi produce i suoi effetti, all’ombra delle tre crisi sanitaria, economica e sociale che ci assediano, congiuntamente alla guerra. Abbiamo sempre saputo che la crisi non è un territorio neutro ma un soggetto politico perché riconfigura il sociale. Davanti a un’emergenza la prima reazione del cittadino è un riflesso disciplinare, che lo porta a sottomettersi volontariamente alle norme pubbliche di salvaguardia e di contrasto al male dettate dalla necessità.

Libertà e responsabilità

Ma quando dall’emergenza si passa allo stato d’eccezione questo equilibrio fragile salta, ognuno fa valere la sua singolarità impaurita, l’irregolarità chiede spazio e trova plauso, i diritti diventano un’esclusiva, ogni norma riceve obiezioni e pretese di deroga, alla ricerca generale di un’eccezione personale permanente, egoista, diffusa. Qui siamo, dopo che un passo alla volta abbiamo autorizzato noi stessi a convivere con comportamenti e sensibilità che non avevamo mai sperimentato.

Lo specifico della tragedia di Civitanova Marche, con l’assassinio di Alika Ogorchukwu sul marciapiede davanti ai passanti e ai loro telefonini che riprendono ma non intervengono, non consente di farne una lettura emblematica dell’Italia di oggi. Ma non c’è dubbio che quanto è accaduto ci manda un forte segnale d’allarme per l’irruzione sulla scena italiana di un fenomeno con pochi precedenti, e che sembrava appartenere ad altri mondi: il cittadino che ritorna individuo, esce dai rivestimenti democratici di convivenza civile in cui è cresciuto con gli altri e libera nudi i suoi istinti facendosi da solo ciò che crede sia giustizia, secondo il suo canone privato, l’unico che ormai conta. Fino ad ammazzare un altro uomo. Ma bisogna completare il quadro del dramma con connotati che non eravamo abituati a usare nella civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri: l’assassino è un uomo bianco, il morto è un venditore ambulante di colore, che chiedeva qualche moneta a chi incontrava per strada, camminandogli a fianco con la sua stampella.

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Ecco davanti a noi i due stereotipi, anzi i prototipi del conflitto sociale italiano, annunciato, fomentato e ingigantito dalla politica di destra negli ultimi anni. Da un lato l’indigeno italiano, che assume la configurazione simbolica e politica dell’uomo bianco: ciò che certamente noi siamo, ma che non ci siamo mai accontentati di essere, aggiungendo su questa identità materiale primordiale tutti i segni e le tracce di ciò che abbiamo incontrato, patito, imparato, studiato e semplicemente vissuto, e che ci ha trasformati in un’identità complessa, ricca, composita e articolata, non riducibile al dato fisico della pelle con cui siamo nati. Dall’altro lato, l’uomo di colore, il nero anzi il “negro”, venuto dalla Nigeria fin nelle Marche per riassumere inconsapevolmente tutta la carica fantasmatica di una figura ideologica al centro del mercato permanente della paura imbandito dalla destra politica: nero, migrante, mendicante dunque molesto nell’insistenza di frapporre il suo corpo al passeggio cittadino, insistendo per vendere qualcosa o comunque per ottenere un soldo, nel Paese dove la povertà individuale sradicata, materiale, è ormai diventata una colpa pubblica.

Quei due esseri che lottavano – uno da aggressore, l’altro da vittima – per quattro infiniti minuti nello spazio fisico dello stesso marciapiede, sulla convivenza nella stessa città, per il futuro nello stesso Paese, hanno portato l’evidenza dei corpi dentro lo schema politico disincarnato della battaglia sull’immigrazione. L’uomo bianco che agisce in quanto tale si rinserra in un universo domestico fatto di sangue, terra, confini, colore della pelle, tradizioni vissute come privilegio e discrimine, fino alla croce – probabilmente – , ma brandita per invocare il Dio degli eserciti e non il Signore della misericordia, dunque un Dio molto poco italiano. L’altro uomo ha passato in Italia dieci dei suoi 39 anni, ma questo oggi non è più sufficiente per cancellare i simboli primordiali dell’alterità ideologica imposta: il colore della pelle, la natura eterna di straniero, la colpa di migrante, il fastidio dell’indigenza e soprattutto il peccato d’origine, il primo e l’ultimo, senza rimedio.

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Quando la contesa diventa appunto ideologica, i corpi si trasformano in simboli e finiscono per dire tutto, per dire troppo, per urlare, rivestendosi di significato e illuminando la partita politica che su di loro si sta giocando, portandoci a regredire nell’identità biologica primitiva che assorbe e cancella la nostra antropologia condivisa e faticosamente custodita nel buio di questi anni. Coi corpi torna l’elemento ancestrale della pelle, simbolo che pulsa, nel cui colore si va a cercare oggi la rassicurazione delle identità naturali, biologiche, e si individua nello stesso tempo il fondamento spaventato delle differenze umane.

La pelle, e il sangue, cui si è esplicitamente richiamato il premier ungherese Viktor Orbán, sostenendo che i popoli europei possono mescolarsi tra di loro, ma non con popoli diversi, “perché non vogliamo diventare una razza mista”. Si torna incredibilmente a parlare di “razza” nel cuore della democrazia occidentale, in mezzo all’Europa, nella modernità di questi Anni Venti, nonostante l’impostura svelata dalla scienza che ha sconfessato questa follia, e addirittura ignorando la tragica esperienza vissuta dall’umanità con l’olocausto. E si torna a cercare nella purezza del sangue il mistero sacro delle origini, e nella sua catena generazionale la garanzia perpetua dell’identità, la promessa perenne dell’eternità. Si replica cioè il culto dell’immortalità simbolica di un popolo, portando la sostanza germinale del sangue fuori dal tempo, in una superstizione storica e scientifica che abbiamo già vissuto.

Un passo più in là, c’è inevitabilmente la paura della contaminazione che spezza il legame mitologico tra gli antenati e i discendenti, corrompe il popolo, chiede la “purificazione”. Ecco dove siamo arrivati, senza preoccuparci di governare il contesto, di misurare i concetti, di sentirci responsabili delle conseguenze delle parole: alle soglie di una teoria forse inconsapevole ma esplicita del razzismo. La destra italiana, prima del voto, ha qualcosa da dire a Orbán e a se stessa?

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