Il silenzio di Israele e i sospetti sull’attacco alla centrale nucleare iraniana di Natanz

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Gerusalemme – Il giorno dopo l’attacco all’impianto nucleare di Natanz, le speculazioni sul coinvolgimento dell’intelligence israeliana si fanno sempre più concrete. Il New York Times, in un articolo co-firmato dal giornalista israeliano Ronen Bergman, ha riportato nel corso della notte che “fonti di intelligence americane e israeliane affermano che Israele ha avuto un ruolo” e nella mattina il ministro degli Esteri di Teheran, Mohammed Javad Zarif, ha apertamente puntato il dito contro Israele. Da Gerusalemme non è arrivata nessuna rivendicazione, ma nei dibattiti sui media locali viene dato un certo peso a quella che viene definita una nuova politica in contrasto con la tradizionale “dottrina dell’ambiguità”, che ha sempre caratterizzato le operazioni di intelligence dello Stato ebraico.

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Il ministro della Difesa Benny Gantz, al termine della due giorni in Israele del capo del Pentagono Lloyd Austin conclusasi lunedì pomeriggio, ha detto che chiederà di aprire un’indagine tra i servizi d’intelligence, Mossad e Shin Bet – escludendo le forze armate a lui sottoposte. “Tutte queste chiacchere, citazioni di ‘fonti di intelligence occidentali’, danneggiano gli interessi dello Stato d’Israele”. Nel mirino ci sarebbero anche leaks rilasciati la settimana scorsa in merito a un’altra operazione attribuita a Israele dal New York Times, ossia l’attacco da parte dell’unità di élite Shayetet 13 alla nave Saviz al largo del Mar Rosso, ritenuta una base delle Guardie rivoluzionarie iraniane.

Gantz ha risposto ai cronisti che lo interrogavano su eventuali cambiamenti nella “politica dell’ambiguità”, sostenendo che si tratti di un “un comportamento irresponsabile. Se deriva da interessi personali o politici è gravissimo. Non sminuisco la grande esperienza del premier nella diplomazia e sicurezza. Penso che ogni altra considerazione dovrebbe essere messa da parte e spero che sia quello che sta facendo”.

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Il Paese è nel pieno di una grave crisi istituzionale che si protrae da due anni. Le ultime elezioni del 23 marzo – le quarte in due anni – hanno confermato lo stallo politico senza la possibilità di nessuno dei due campi avversari di raggiungere una maggioranza di 61 parlamentari per formare un governo, e questo mentre la settimana scorsa si è aperta la fase dibattimentale del processo per corruzione dell’attuale premier Benjamin Netanyahu. Al momento, il Presidente ha affidato a lui l’incarico di formare un governo e gli rimangono 23 giorni per riuscire nell’impresa. Proprio oggi pomeriggio ha incassato un importante consenso da parte di Naftali Bennett, leader della destra nazionalista di Yemina, finora considerato un ago della bilancia. Bennett ha dichiarato che “Netanyahu può contare sulle dita di Yemina per formare un governo di destra”. Con Bennett, Netanyahu arriva però a 59 consensi e la sfida rimane ancora aperta: trovare due “disertori”, o convincere le fazioni più oltranziste dell’alleanza di destra a non porre il veto all’appoggio esterno di Ra’am di Mansour Abbas, il leader del partito islamista che si è detto disposto ad appoggiare qualsiasi governo che accolga le sue richieste.

“Israele affronta delle sfide enormi: il Tribunale dell’Aja, l’Iran, la ripresa economica” ha detto Bennett. “Dobbiamo occuparci di colpire i nostri nemici e non noi stessi. Questo circo che potrebbe portare a quinte elezioni indica ai nostri nemici che ci stiamo disintegrando. Ed è l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno”. L’escalation sul fronte estero potrebbe rappresentare quindi un’ancora di salvezza sul fronte interno, un po’ come accaduto l’anno scorso quando la pandemia ha portato alla formazione del governo di unità nazionale Netanyahu-Gantz, che però, come si è visto, ha avuto vita breve.

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