Il voto per il Quirinale già divide i 5S. Conte: “Possibile passaggio in Rete”

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]Il ragionamento per ora è solo abbozzato, ma è una considerazione generale che ha un peso. A Giuseppe Conte è chiara una cosa: andare a elezioni nel 2023 (o quando sarà) con Mario Draghi ancora presidente del Consiglio sarebbe una pessima eventualità per il M5S. Il cosiddetto “metodo Draghi”, coi partiti costretti a subirne le scelte e ridotti a portatori d’acqua del super tecnico, fa male al Movimento più che ad altri; la sensazione è che l’alto astensionismo di queste amministrative ne sia un effetto diretto, pagato a caro prezzo proprio dai 5 Stelle, come dimostrano i flussi di voto. Per questa ragione promuovere Draghi al Colle non è un’opzione impraticabile per chi guida il M5S, anzi.

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La fase è assai confusa e un coordinamento sulla partita Quirinale, all’interno del più grosso gruppo parlamentare, non è ancora cominciata. Su un punto però pare ci sia assoluta comunanza di vedute tra le varie anime: la legislatura deve arrivare a naturale scadenza. Le ragioni qui si fanno meno politiche e più personali. Sugli attuali 235 parlamentari del Movimento, circa 160 sono al primo mandato. Considerato il taglio dei parlamentari che parte dalla prossima legislatura, considerato il prevedibile dimezzamento – se non di più – dei consensi del partito rispetto al 2018, pochissimi di loro avranno un’altra possibilità di rientrare in Parlamento e quindi godere di un trattamento economico e di status invidiabile. Inoltre, per maturare il diritto alla pensione compiuti i 65 anni di età, occorre che si arrivi almeno a settembre 2022. Nessuno è pronto a immolarsi per scelte che possano comportare la fine anticipata della legislatura. Vale per i 5 Stelle ma anche per gli altri gruppi, dove a parte i big sicuri di un futuro ancora in primo piano, decine e decine di peones si interrogano sul proprio futuro. Dopodiché prima di cominciare un confronto vero con gli eletti sull’elezione del presidente della Repubblica, Conte deve risolvere un altro problema: tenere unito il proprio gruppo parlamentare. Oppure, altra dizione che va molto in questi giorni, dimostrare di poterlo controllare. La faccenda dei nuovi capigruppo alla Camera e al Senato del M5S da rinnovare è ancora tutta aperta e a nessuno è sfuggito – neanche agli altri partiti – che il tentativo del presidente del Movimento di sostituire Davide Crippa a Montecitorio non è andato in porto. Se ne riparla a dicembre, a naturale scadenza del mandato (nei 5 Stelle è storicamente a rotazione). Né è ancora ben chiaro come andrà a finire a Palazzo Madama, dove l’uscente Ettore Licheri a differenza di Crippa è un fedelissimo contiano e dovrebbe riproporsi, ma attorno alla senatrice Maria Domenica Castellone si sta unendo un gruppo di scontenti che può riaprire la questione.

Le indiscrezioni post-pranzo di lunedì tra Conte ed Enrico Letta, col nome di Paolo Gentiloni filtrato e bruciato in area M5S, non sono state gradite da molti parlamentari. “Quando mai si è detto sì o no a Gentiloni? Non è stata fatta nessuna riunione sull’argomento”, è la considerazione arrivata da più parti. “Il partito di maggioranza relativo in Parlamento non può pensare di risolvere il confronto interno tornando alla logica del “caminetto”, le parole di Sergio Battelli al Foglio.

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Opinione diffusa, tanto che Conte poi ha dovuto metterci una pezza: “Sul futuro nome ci deve essere ampia discussione interna. E non possiamo escludere neppure un passaggio in rete, ma dovremo valutare candidati su cui ci sia una possibile convergenza degli altri partiti”, la sua puntualizzazione ad Adnkronos. Di carne al fuoco ce n’è parecchia, i nomi che girano nel M5S per ora sono più che altro legati a suggestioni, conta molto non “bruciare i nomi”, per citare Luigi Di Maio ieri a Otto e mezzo. Si parla comunque di un bis di Sergio Mattarella, Liliana Segre, Pierluigi Bersani. Il no secco è riservato solo a una persona: Silvio Berlusconi.

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