I militari ucraini caricano un frammento di razzo su un camion fuori da un edificio a Kiev
Un aspetto dell’ultima guerra mondiale che colpì lo scrittore tedesco W.G. Sebald ha a che fare con le rare e sporadiche testimonianze sui bombardamenti. Una sorta di imprevedibile rimosso, un imbarazzo profondo, quasi un senso di vergogna ha occultato la devastazione delle città europee, e in particolare le oltre cento città tedesche attaccate (con la conseguenza spaventosa di seicentomila morti fra i civili e sette milioni di senzatetto). Sebald la chiama “storia naturale della distruzione”, e ne cerca tracce anche in romanzi meno conosciuti. Resta qualcosa come una “malinconia insanabile” di fronte non solo alle storie delle vittime, ma anche alla lacerazione dei luoghi. Stravolti, irriconoscibili, destinati a non tornare mai più come erano. Le rovine restano in qualche modo rovine. L’esistenza urbana – nel modo in cui si è radicata, consolidata, cristallizzata – in questa o quella città è sostanzialmente cancellata. In questa immagine, la carcassa dell’auto in primo piano, i detriti, le lamiere, le pareti sventrate dicono di una distruzione in atto, ma anche della cicatrice immane che sarà visibile nello spazio. Quando si parlerà di ricostruzione, si saprà di partire da un vuoto.
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