Inumana, degradante, illegale: l’inaccettabile realtà della sezione psichiatrica del carcere di Torino

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“Nell’ultima cella prima dell’uscita c’era un ragazzino. Avrà avuto 25 anni. Le lacrime hanno cominciato a scendergli dagli occhi. Mi ha detto che non capiva perché fosse lì, che gli mancava sua madre e che aveva tanta paura tutte le notti. Gli operatori mi hanno spiegato che erano in attesa che si liberasse un posto in una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) per i pazienti psichiatrici. Il ragazzo non avrebbe dovuto trovarsi lì, non c’era titolo per la sua detenzione. Sono uscita e ho chiamato la madre. Era contenta che almeno qualcuno avesse visto suo figlio. Lei non ci era riuscita, nessuno le aveva detto dove lo avessero portato”. Così Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, che qualche giorno fa ha visitato la sezione psichiatrica del carcere di Torino.

Il racconto di Marietti prosegue: “La cella è piccola, sporca, quasi completamente vuota. Al centro vi è un letto in metallo scrostato e attaccato al pavimento con i chiodi. Sopra è buttato un materasso fetido, a volte con qualche coperta e a volte no. Qualcuno ha un piccolo cuscino di gommapiuma. Non vi è una sedia né un tavolino. Solo un piccolo cilindro che sembra di pietra dove ci si può sedere in posizione scomodissima. Unico altro arredo, un orrendo bagno alla turca posizionato vicino alle sbarre, di fronte agli occhi di chiunque passi per il corridoio”. In queste condizioni, Susanna Marietti ha trovato sedici detenuti, tra i quali un giovane uomo che “si teneva a stento in piedi sulle gambe. Aveva un filo di bava che gli colava sulla blusa. Gli occhi semichiusi, come se stesse per addormentarsi in piedi da un momento all’altro. Ha tentato di pronunciare qualche parola rivolto a me che mi ero fermata lì davanti. Faceva fatica ad articolare i suoni. Ha balbettato la parola ‘avvocato’. Gli ho chiesto se avesse avuto modo di parlare con il suo legale. Si è chinato e da un mucchietto di carte per terra ha preso un foglietto con un numero di telefono. L’ho copiato sul mio quaderno e gli ho detto che l’avrei avvisato che si trovava lì. Mi è stato spiegato che l’uomo era a Torino per un periodo di 30 giorni di osservazione psichiatrica, mandato lì da un altro istituto”. E poi un altro ragazzo che “stava in piedi con la faccia a pochi centimetri dal muro. Teneva i palmi delle mani rivolti verso l’altro, all’altezza delle spalle. Parlava verso quella parete, ogni tanto si girava verso il letto, poi tornava a rivolgere la faccia al muro. Barcollava e aveva gli occhi a mezz’asta”. In una simile situazione si trovavano tutte le persone recluse nella sezione

Sestante, la cosiddetta “articolazione psichiatrica” del carcere torinese. Condizioni inumane e degradanti oltre che palesemente illegali. Dopo che la denuncia di Antigone è stata ripresa ampiamente da La Stampa, c’è stata la risposta da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), che ha così replicato: “Oggi (ieri, ndr) è stato sottoscritto il contratto con la ditta aggiudicataria dell’appalto”, che prevede la ricostruzione dell’intera sezione psichiatrica. Nel frattempo, come ha spiegato il capo del Dap Bernando Petralia, gli attuali detenuti verranno trasferiti altrove fino a quando non sarà chiuso il cantiere finalizzato alla riqualificazione di quell’area. E qui c’è già una incongruenza: almeno uno di quei sedici detenuti della sezione Sestante, lì non doveva proprio starci. Perché la sua destinazione sarebbe stata, appunto, in una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, e non nella cella di un penitenziario. Ma, ecco il punto, in tutto il territorio nazionale si registra una grave carenza di posti all’interno delle Rems: e, così, le persone che vi sono destinate per legge vengono “scaricate” laddove capita. Proprio contro questa gravissima violazione delle garanzie fondamentali, la Corte europea dei diritti umani, nel gennaio del 2021, a seguito di un esposto dell’avvocato Andrea Saccucci, ha emesso una ingiunzione che vieta tassativamente la reclusione in carcere dei pazienti psichiatrici. Ultima considerazione: il Dap ha la pessima abitudine di non rispondere alle richieste e alle critiche, che provengano dai mezzi di informazione o dai rappresentanti istituzionali, eppure questa volta ha battuto un colpo. Forse l’ha fatto perché poteva – e giustamente – rivendicare una qualche tempestività. È una buona notizia, ma gravemente compromessa dal fatto che la prima segnalazione della tragica situazione del reparto Sestante, a opera del Garante nazionale delle persone private della libertà, risale all’ottobre del 2016. Sono cinque anni giusti giusti di denunce inascoltate e di un intollerabile scialo di sofferenza.

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