Gli anniversari sono quasi sempre delle corse contro il tempo. Funzionano da lente d’ingrandimento, ma anche da specchietto retrovisore: «Objects in the mirror are closer than they appear». Gli oggetti nello specchio sono più vicini di quanto appaiano. Lo sport ti fa saltare i secoli, viaggi alla velocità della luce, dal Medioevo all’Illuminismo, non stop.
«Clicca qui per iscriverti gratuitamente alla newsletter di Emanuela Audisio»
Così sembrò 20 anni fa ai Mondiali di atletica di Parigi. Lei ai blocchi dei cento metri stava lì ferma. Non sapeva dove mettere mani e piedi. Ma la corsa non poteva partire se lei non si sistemava. Così arrivava un giudice: «Cara, dovresti allargare le mani e metterle qui e dovresti anche toglierti i pantaloni». Lima aveva su quelli di una vecchia tuta, larghi e lanuginosi e una maglia grigia enorme. Senza sponsor, senza scritte. La sola ad essere coperta, a non mostrare le gambe, a chinare gli occhi. I capelli raccolti nella coda di cavallo. Un fagottino impaurito. Si muoveva un altro giudice con l’aria di chi si dedica a una causa persa: «I piedi vanno qui, ti aiuto, dai che ce la fai». E lei che sprofondava nella vergogna e non sapeva dove guardare. Come fai a non essere a disagio se non hai mai corso i cento metri, se ti hanno comprato le scarpe la sera prima, se non sei mai andata all’estero e non hai mai preso un aereo, se tuo padre non voleva lasciarti andare perché chissà che marziani trovi a Parigi, se hai gli occhi del mondo addosso e tu a Kabul sei stata prigioniera in casa a leggere sempre lo stesso libro.
«Chi è quell’imbranata in corsia numero due?» chiedevano intanto le grandi signore dello sprint come la giamaicana Merlene Ottey, assai infastidita per la perdita di tempo. La Cenerentola di Kabul. Lima venne subito chiamata così. Aveva perso le scarpe, anzi le aveva dimenticate sul taxi che la portava all’aeroporto, non aveva i soldi per comprarle e quando gli organizzatori gliele avevano offerte quasi sveniva per il prezzo. «Costano più di quello che guadagna in un mese mio padre».
Lima Azimi, 22 anni, musulmana, studentessa universitaria del secondo anno di lingua e letteratura inglese, apprendista atleta in un Afghanistan che sembrava poter cambiare. «Non abbiamo un campo di atletica, non possiamo allenarci all’aperto, ci arrangiamo in una palestra. Quando i talebani erano al potere ero in quarantena a casa, non mi era permesso uscire da sola. Sono la maggiore di sei figli, mi sono dovuta accontentare di alcuni libri, sempre quelli, perché l’istruzione formale non era consentita. Da grande vorrei fare la campionessa, magari nel volley, ma so che non succederà».La stampa mondiale l’aveva celebrata. La prima afghana a volto scoperto. La prima in una competizione globale. «A little big girl». Una piccola grande donna. C’era anche chi faceva ironia: «Made history in slow motion». Ha fatto la storia al rallentatore. Un altro modo per dire che era stata una tartaruga lenta.
Le altre erano partite a razzo, lei trotterellando. Un vecchio film in bianco e nero. Lima arrivò al traguardo un secolo dopo. Ultima in 18”37. Quando le sue avversarie erano già nello spogliatoio. Il primo record del mondo ufficiale dei 100 metri è di Marie Mejzlikova, cecoslovacca, 13”6 nel 1922. Lima, che aveva ottenuto il suo primato personale, anzi meglio il suo personal best, avrebbe perso malamente anche con la sprinter pioniera. Nelle favole c’è il principe azzurro, ma Lima Azimi non lo cercava. La sua medaglia era poter correre a fare un picnic. E non stare a casa, in cucina, a servire. Padre, mariti, fratelli. Per questo non voleva lasciare vuota quella corsia. Il mondo s’intenerì, le tributò l’omaggio che si deve a chi per un attimo attraversa le nostre vite e ci fa sentire fortunate. Poveraccia, aveva vissuto l’adolescenza agli arresti domiciliari, respirasse un po’ di buona aria occidentale. Per le altre concorrenti Lima restò una fastidiosa apparizione. Nessuna si fermò ad aspettarla al traguardo, magari per un piccolo applauso d’incoraggiamento. Addio, ragazza di Kabul, sperando sia un arrivederci. A presto, Cenerentola afghana.
Forse era meglio scrivere a mai più. Sono passati vent’anni. In Afghanistan c’è stata l’Operazione Enduring Freedom. Libertà duratura. Ma non per le donne. Anzi nemmeno sporadica, con i talebani. Oggi a Budapest iniziano i Mondiali di atletica. Quelli che nel 2003 videro per la prima volta gareggiare Lima Azimi. Ci sono anniversari surplace, dove hai corso per restare sempre sulla stessa linea di partenza. O peggio all’indietro. Piccole Lima crescono? No. Tra le donne l’Afghanistan non ha nessuna iscritta. Libia, Iraq, Siria nemmeno. Le guerre isolano, magari ti lasciano viva, ma priva di mezzi, di cultura, d’informazione. Per desiderare devi conoscere, altrimenti resti una che non può sognare di correre, saltare, lanciare. Il mondo va avanti. In Australia si è giocata la finale mondiale di calcio femminile tra Spagna e Inghilterra. E già in Gran Bretagna c’è chi si chiede se la loro allenatrice, l’olandese Sarina Wiegman che ha già portato la squadra a vincere gli Europei non meriti di subentrare a Gary Southgate, ct degli uomini, visti i suoi ottimi risultati, nonostante la sconfitta contro le Furie Rosse. E di guadagnare quanto lui (5 milioni di sterline l’anno contro 400 mila). «I have a dream». Il 28 agosto saranno sessant’anni da quando il reverendo Martin Luther King pronunciò la frase. Chissà se Lima sogna ancora. O se lo fanno le sue figlie.
Go to Source