La differenza fra il calcio e Fortnite

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Le facce. Dovete guardare le facce. Per capire chi siamo e cosa stiamo diventando dovete guardare le facce dei tifosi inglesi che in due giorni hanno fatto saltare il lavoro di mesi, forse di anni, per una SuperLega del calcio. Sono facce di giovani. Non sono nostalgici, non sono quelli che si ricordano a memoria la formazione della nazionale del ‘66. Sono ragazzi. Probabilmente quando non seguono il calcio giocano alla PlayStation. Quelle facce mi hanno colpito perché Andrea Agnelli per spiegare le motivazioni profonde che starebbero dietro l’idea di creare una Superlega dei migliori del calcio, una League of Legends, per citare il linguaggio dei videogiochi, ha detto: “Per fare concorrenza a Fortnite e a Call of Duty”. Perché i giovani preferiscono l’adrenalina dei videogiochi ai ritmi a volte sonnacchiosi e prevedibili del calcio. Ma è davvero così? Ed eventualmente la soluzione è davvero trasformare il calcio in un videogioco? Quei ragazzi inglesi sembrano dirci di no, puoi passare ore davanti ai videogiochi ma scendere in piazza per difendere il calcio di una volta, le due cose non sono in contraddizione. Certo, è una risposta romantica che non tiene conto del valore del nostro tempo in una economia che si basa sulla capacità di un servizio di conquistare la nostra attenzione. Da questo punto di vista il calcio sta perdendo, non si può negare. E i conti di molti club sono lì a dimostrarlo: costano più di quello che riescono ad incassare. 

Il problema, prima ancora che economico, è culturale: quindici anni fa a proposito dei nativi digitali si diceva che stava avanzando una generazione che respira “con le branchie di Google”. Vuol dire, per esempio, che tecnicamente davvero non sanno cosa sono i giornali di carta e che i film li guardano sul telefonino e non al cinema: se hai una tipografia o gestisci una sala cinematografica sai di cosa parlo. Questa cosa si traduce in ritmi di apprendimento e comunicazione diversi, più brevi, sincopati, velocissimi, e inevitabilmente, apparentemente, superficiali. E comunque in una certa difficoltà nel restare concentrati a lungo su una cosa sola: tipo i 90 minuti di una partita di calcio. Ecco perché ora alcuni dicono: facciamola durare meno, in fondo sulla Play una finale di Champions può durare pochi minuti.  

Con questa rivoluzione culturale tutti dobbiamo fare i conti, non possiamo far finta che non esista, è in corso da un pezzo. Ma la soluzione non è necessariamente rinunciare a quel che si è. Perché è quello il motivo per cui esistiamo e le cose hanno un senso. Del resto chi prima del calcio ci ha già provato, lo ha capito che non funziona. Prendete il tennis: qualche anno fa sembrava spacciato e per aumentare gli incassi venne creata una sorta di superlega, un torneo dove giocano solo i migliori, non ci sono sorprese. E naturalmente il numero massimo di set è tre perché andiamo di fretta con le branchie di Google. Sulla carta è quello il torneo dei tornei, ma alla fine, nella percezione comune, è solo una esibizione di lusso. Una amichevole. Se vuoi fare la storia non è quello il torneo che devi vincere: ma Wimbledon o il Roland Garros. E’ per tornei così, antichi, epici, in divisa bianca e durata indefinita, che i tifosi impazziscono. 

E’ una questione di autenticità. E’ lo stesso motivo per il quale i libri di carta che sembravano destinati ai musei, sono tornati ad essere il principale modo per leggere un libro. E i dischi in vinile hanno tutto un altro suono. Così come stare davanti a qualcuno rispetto ad una videochiamata. Una questione di autenticità. E’ questa l’unica strada del calcio per fare concorrenza ai videogiochi. Rimettere al centro valori, legami, significati. Altrimenti una partita alla PlayStation con un amico sarà sempre migliore di una pseudo-amichevole di stelle annoiate. 

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