La dottrina sociale della destra

Pubblicità
Pubblicità

C’è qualcosa che lega insieme, sotterraneamente,

i fili sparpagliati del reddito di cittadinanza cancellato, del salario minimo contestato, della povertà vissuta come una moderna colpa, delle categorie che si autonomizzano come nuove corporazioni, e infine della tassa sugli extraprofitti delle banche. Anche se nessuno lo rivendica siamo davanti alle prove generali — confuse e contraddittorie, ma ormai evidenti — di una nuova dottrina sociale da parte della destra di governo, che sta prendendo forma parallelamente alla battaglia culturale in corso, per ora fondata soltanto sull’occupazione sistematica di spazi e incarichi: per costruire quell’assalto al cielo dell’egemonia che Giorgia Meloni ha promesso ai suoi seguaci, come conquista e risarcimento dopo gli anni vissuti come underdog della politica italiana.

Da un lato, potremmo dire, tutto ciò che costruisce l’immaginario, fabbrica la visione del mondo, crea il sentimento collettivo di identificazione, l’autocoscienza della nazione. Dall’altro, la materialità degli interessi legittimi scomposti, selezionati e organizzati attorno al disegno del Paese che il governo ha in mente, nella convinzione che quegli interessi individuali, di gruppo e di categoria lasciati liberi di agire produrranno automaticamente crescita e sviluppo. È il tentativo della destra di riformulare il concetto di lavoro, con una nuova teoria che lo contenda alla sinistra, che qui ha sempre custodito il deposito identitario da cui hanno preso origine le sue organizzazioni sociali e le loro proiezioni politiche. Ma oggi la sinistra si muove spaesata davanti alla divaricazione tra sviluppo e occupazione, disorientata dalla disintegrazione del lavoro frantumato mentre è mondializzato, non più radunabile sotto il tetto comune della vecchia fabbrica e delle parole d’ordine generali che si rivolgevano alla “classe”.

È il momento propizio per incoraggiare una lettura parcellizzata della crisi che stiamo vivendo, modellata da ogni produttore e da ogni categoria sulla misura della sua condizione particolare e dei suoi interessi specifici, senza più cercare nelle idee generali un’interpretazione comune condivisa. Anzi, dopo l’attacco congiunto delle crisi economica, finanziaria, sanitaria (a cui si aggiunge un deficit cronico di rappresentanza, che tiene una quota impressionante di cittadini lontani dal voto) l’unico sentimento ancora collettivo è il risentimento: su cui il populismo di destra — e non solo — ha sempre investito, proponendo uno scambio al ribasso tra il ribellismo dei ceti medi spodestati e una politica pronta a trasformarsi in antipolitica per cavalcarlo.

Metropolis/387 – “Posizioni firme”. Chi non vuole il salario minimo? Con Capobianco, Fratoianni, Ruotolo, Siracusano, Giani, Lingiardi. Poi De Cataldo (integrale)

La novità è che il lavoro diventa oggi lo strumento della destra per dare un segno di riconoscimento al “forgotten man” italiano, l’uomo marginalizzato che si sente escluso, comunque non più coperto dalla politica, addirittura non garantito dalla democrazia. Il lavoro come riserva di energia e promessa di crescita, visto non più come obbligazione volontaria alla necessità e come strumento di cittadinanza e di emancipazione, ma interpretato nella sua esclusiva dimensione economica, nella definitiva privatizzazione degli interessi, circondati dalla nuova avarizia sociale in cui viviamo. In questo modo il lavoro diventa il valore supremo, l’ultimo totem ideologico, a cui si devono subordinare tutti gli altri elementi considerati accessori, come la sicurezza, la salute, le tutele.

Primo Maggio, parte la sfida per l’egemonia sociale

Veramente, a questo punto e con questa concezione, il lavoro riconfigura la società. Non più veicolo di liberazione dal bisogno, diventa sinonimo di libertà, ma di una libertà privatizzata aliena alle regole e alle responsabilità generali, come se la crisi avesse riconosciuto al capitale uno status privilegiato rispetto agli altri elementi del mercato, e oggi il produttore fosse autorizzato a rifiutare le lezioni della scienza, i suggerimenti della medicina, le prudenze della politica: i vincoli di responsabilità generale. Tutto respinto e denunciato come un’ossessione normativa e un eccesso regolamentare dalla destra, che punta a trasformare il malcontento e la frustrazione della piccola impresa, del lavoro autonomo, del commercio, in disobbedienza civica: in cambio dell’assicurazione che la battaglia underdog contro le élite continua anche da palazzo Chigi, come dimostra la tassazione degli extraprofitti bancari.

L’obiettivo di questa contesa sul lavoro è certamente la conquista di un mondo che oggi è senza bandiera, perché abbandonato. Ma è soprattutto la creazione di un nuovo blocco sociale di riferimento per la destra, composto da energie produttive distinte e separate, senza un orizzonte comune ma capaci nell’insieme di modificare l’equilibrio sociale, uscendo definitivamente dalle eredità del Novecento: che aveva benedetto la solidarietà, la responsabilità, la sussidiarietà e il bene comune nella dottrina sociale della Chiesa, e aveva fissato nelle Costituzioni del dopoguerra la dimensione sociale e solidale dello Stato, dando una sostanza materiale ai valori e ai diritti di libertà. Oggi tutto questo può tornare in discussione, a partire dal welfare e dalla sua estensione. Come se la coesione sociale fosse frutto di un miracolo, e non dell’alleanza tra lavoro, capitale, solidarietà e democrazia: la cifra della civiltà europea.

Pubblicità

Pubblicità

Go to Source