La felicità di Gioele, in campo dopo 4 anni e la leucemia: “La mia rinascita in tre minuti di partita”

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“Sono entrato in campo come fosse la prima volta. Quando a vent’anni ti dicono che hai il 30 per cento di possibilità di morire sotto i ferri, il tuo modo di vedere le cose cambia”. Gioele Montagnolo è un calciatore di Monteleone d’Orvieto che ha battuto la leucemia e, quattro anni dopo la scoperta della malattia, è tornato a giocare. La sua passione. Domenica l’allenatore della Pievese lo ha inserito negli ultimi tre minuti della sfida col Marra San Feliciano, Promozione umbra. Tutti in piedi, pubblico e giocatori, ad applaudirlo. A fine partita i compagni di squadra lo hanno mandato avanti, da solo, per raccogliere un’altra onda di affetto generata dagli spettatori in tribuna. Dai 18 ai 22 anni tutto questo gli è stato negato.

Montagnolo, cosa ha attraversato la sua testa in quei momenti?
“Non credevo sarebbe successo già domenica. Ero in panchina tranquillo e solo quando l’allenatore mi ha detto: ‘Vai a fare un paio di corsette’, ho realizzato. Tutti mi hanno applaudito, è stato bello. Ero felice. Poi ho parlato con i miei compagni su dove posizionarmi in campo, ma era come se lo facessi per la prima volta. Quei quattro anni maledetti hanno annullato tutto. A fine partita ho ricevuto un sacco di abbracci e poi mi hanno mandato avanti per salutare i tifosi. Ero commosso, ma ho cercato di nasconderlo”.

Lei ha pianto una volta, però.
“Di fronte a mio padre, in una piccola stanza d’ospedale. Una ricaduta della malattia mi lasciava come unica via d’uscita il trapianto del midollo. Ma mica tanto sicura: 70 per cento di possibilità di vivere, 30 di morire. Mentre il dottore spiegava la situazione mi è crollato il mondo addosso. Mi sono sfogato dieci minuti, poi ho detto: ‘Facciamolo’. Ho sempre avuto fiducia assoluta nei medici e il reparto di Oncoematologia pediatrica di Perugia è un’eccellenza”.

Alla scoperta della leucemia linfoblastica acuta di tipo B, la prima volta, aveva reagito in altro modo?
“Sì, sempre col sorriso. L’avevo presa come una cosa da fare per poi tornare a giocare a pallone. Avere un obiettivo in queste situazioni è fondamentale, è il consiglio che mi sento di dare. Era l’estate del 2018, aiutavo mio zio a ristrutturare casa, ma la sera ero sempre sfinito. Mia zia, medico, si è subito allarmata e mi ha fatto fare controlli approfonditi. Anche perché mio cugino aveva avuto da poco un tumore. Conoscevo già quel reparto dell’ospedale di Perugia. Dalla faccia di mamma ho capito tutto”.

Poi cos’è successo?
“Ho iniziato la cura con un farmaco specifico, ma dopo un mese alcune complicanze hanno rischiato di uccidermi. Sono rimasto a letto un mese e mezzo, immobile. Senza mangiare né bere, ho perso 25 chili. Poi i medici hanno trovato la terapia giusta, è durata due anni. Però non ho potuto fare sport per il rischio di complicanze respiratorie dovute al farmaco”.

Domenica 15 maggio, il ritorno in campo di Gioele Montagnolo

Domenica 15 maggio, il ritorno in campo di Gioele Montagnolo  Quando ha ricevuto l’idoneità per tornare a giocare?
“Avevo ripreso a correre prima della pandemia, poi il Covid ha bloccato i campionati. Poco dopo la scoperta della ricaduta e il trapianto di midollo, donato da mio padre. Finito il calvario ho ricevuto dai medici l’ok a riprendere l’attività fisica a gennaio, ma per l’idoneità ho dovuto attendere aprile, sei mesi dopo l’ultima pillola”.

Finalmente gli allenamenti.
“La Pievese in tutti questi anni mi ha aspettato, mi ha inserito nella rosa, mi ha seguito. Non mi hanno mai fatto sentire estraneo, devo molto alla società”.

A cosa ci si aggrappa quando la tua vita è in pericolo?
“Alle persone care che ti stanno vicino e che si sacrificano per te: genitori, fratello, sorella, fidanzata, amici. Non sono stati momenti facili. Quando la mia salute era fragile hanno rinunciato a uscire per non mettermi in pericolo. Per questo mi sono sempre sentito in dovere di non cedere allo sconforto e di tenere il loro morale alto, scherzando sulla mia malattia. Poi ti devi affidare completamente ai medici, collaborare con loro fin dove puoi. E cercare di svagarti un po’: fortuna che l’Inter l’anno scorso ha vinto lo scudetto, ho festeggiato. E quando stavo un po’ meglio sono andato a San Siro con papà”.

La sua vita sarà sempre legata a un amico speciale.
“Mi sono fatto un tatuaggio con la sua iniziale e alcuni disegni che simboleggiano la vita, inconsapevolmente nel giorno di quello che sarebbe stato il suo compleanno. T. era un bambino ricoverato con me e a cui mi ero affezionato. Non ha superato il trapianto, ma fino all’ultimo mi ha stupito la sua voglia di vivere. Lo porterò con me per sempre”.

Il tatuaggio composto da un cerchio zen, l'albero della vita e l'iniziale T. del nome del bambino che non ce l'ha fatta

Il tatuaggio composto da un cerchio zen, l’albero della vita e l’iniziale T. del nome del bambino che non ce l’ha fatta  Ha riassaporato il campo, ora tocca al resto. Cosa vorrebbe fare?
“Ho dovuto interrompere l’Università due volte e adesso non mi sento in grado di studiare a tempo pieno. Amo fare progetti al computer e vorrei iscrivermi a un corso di formazione per programmatori”.

Domenica di nuovo in campo?
“Decide l’allenatore, io sono pronto”.

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