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La Germania premia il “cacciatore di nazisti” italiano

Dicevano che era inutile cercarli, perché ormai erano tutti morti. Sostenevano che Erich Priebke, il boia delle Fosse Ardeatine scovato in Argentina nel 1994, fosse l’ultimo. Invece no. Tanti erano ancora vivi. Reduci delle SS o della Wehrmacht, avevano sepolto l’orrore delle stragi di cui erano stati esecutori – da Sant’Anna di Stazzema a Marzabotto – e si godevano una rispettata vecchiaia da pensionati nelle villette della Baviera o della Turingia. Finché un ostinato procuratore militare italiano li ha rintracciati, obbligandoli a fare i conti con le responsabilità nell’uccisione di anziani, donne e bambini, assassinati indossando l’uniforme del Terzo Reich.

Oggi a onorare il “cacciatore di nazisti” italiano sarà lo Stato tedesco: l’ambasciatore Viktor Embling consegnerà l’ordine al merito della Repubblica federale a Marco De Paolis, attualmente procuratore generale militare. Tra il 2003 e il 2013 le inchieste condotte da De Paolis sono riuscite a individuare centinaia degli uomini che presero parte ai massacri. Ma, cosa ancora più difficile, ne hanno portati molti a processo, ottenendo 57 condanne all’ergastolo. Soldati, graduati, ufficiali che si erano macchiati degli eccidi di innocenti, soprattutto nell’estate 1944, quando per liberare le retrovie dagli attacchi partigiani le truppe germaniche hanno fatto terra bruciata lungo l’Appennino. 

“Poco dopo giunsero sul sagrato questi civili – ha messo a verbale l’ex caporale delle Waffen-SS Adolf Beckert, interrogato sessant’anni dopo i fatti – Vi furono condotti da soldati col fucile spianato. Si trattava esclusivamente di anziani, donne e bambini. Vi era anche il parroco. Poi sopraggiunse l’ordine: “Fuoco!”. E le persone furono colpite dalle mitragliatrici. Erano brutte immagini, morivano silenziosamente, senza emettere un grido”.

Queste indagini non sono nate solo dalla riscoperta de “l’armadio della vergogna”, dove erano stati occultati per decenni quasi 700 fascicoli sui massacri con gli elementi raccolti dagli Alleati e dalle autorità italiane nel primo dopoguerra. C’è stato un clima di collaborazione senza precedenti con le autorità federali, reso possibile anche dal gesto del presidente Johannes Rau che nell’aprile 2002 ha voluto visitare Marzabotto assieme a Carlo Azeglio Ciampi. “La colpa personale ricade solamente su chi ha commesso quei crimini – dichiarò Rau -. Le conseguenze di una tale colpa, invece, devono affrontarle anche le generazioni successive”.  La Germania riunificata stava cominciando a fare pienamente i conti con il suo passato. Inchieste giornalistiche, in particolare quella di Udo Gumpel, avevano scoperto e intervistato i fucilatori, ancora orgogliosi del loro passato. Come Albert Meier, che nel 2002 giustifica davanti alle telecamere di Ard il comportamento del suo reparto di SS a Marzabotto: “Sì io c’ero, certo. Forse i partigiani erano combattenti regolari? Quelli erano teste di topo. A quelli vorrei ancora oggi… Lei va lì con due o tre camerati, e poi “pum pum”, ti centrano. Cosa farebbe lei? Direbbe grazie? O andrebbe a rompergli il culo?”. Ma a Marzabotto tra le centinaia e centinaia di vittime rastrellate casa per casa non c’erano partigiani.

Il nuovo millennio ha imposto una differente lettura giuridica delle responsabilità, che non accettava più l’avere “obbedito agli ordini” come un presupposto di innocenza. E soprattutto per la prima volta c’è stata un’attività sistematica da parte della procura militare di La Spezia diretta da De Paolis. L’opera di esperti – come Carlo Gentile che ha studiato gli archivi militari tedeschi o Paolo Pizzino per la ricostruzione delle testimonianze italiane – ha permesso di trovare i nomi di chi era presente e gli indirizzi dei sopravvissuti. Paradossalmente, foto e documenti pubblicati nei volumi apologetici del Reich hanno agevolato la ricerca, fornendo indizi preziosi sul ruolo di singoli reparti. L’istruttoria è stata completata da una squadra investigativa formidabile, composta da quindici carabinieri e finanzieri bilingue, altoatesini o cresciuti in Germania da famiglie di emigrati, capaci di leggere i documenti e gestire i rapporti con le procure tedesche. Negli interrogatori i veterani si sono ritrovati davanti quei militari italiani che tanto avevano disprezzato durante la guerra e che gli contestavano nella loro lingua l’elenco dei crimini, mostrandogli gli atti ufficiali recuperati dagli schedari hitleriani.

Così De Paolis è riuscito a portare avanti diciassette processi e ottenere 57 condanne all’ergastolo in primo grado. Un’operazione senza precedenti nell’intera Europa, che continua a essere studiata come un modello. “Quei dibattimenti – ha dichiarato il magistrato in uno degli incontri pubblici – restano certamente a dire qualcosa. Una piccola luce per le vittime, i sopravvissuti, i familiari. Tutte persone che non hanno mai chiesto vendetta ma giustizia. Anzi, talora anche meno: chiedevano solo di essere considerate”. In quegli anni la procura militare di La Spezia infatti è diventata il punto di riferimento delle comunità che continuavano a cercare la verità e chiedere giustizia, perché il tempo non aveva cancellato la ferita ma nessuno prestava più attenzione al loro dramma.

Per De Paolis quelle condanne hanno un significato che va oltre gli esiti processuali: sono “uno scudo solido e imparziale” che protegge la realtà storica da ogni tentativo negazionista. E sappiamo quanti ancora oggi condividano le stesse idee distorte dell’SS Meier, pronti ad accusare di tutto i partigiani, rimuovendo la realtà di quell’orrore senza giustificazione. Che ha trovato riconoscimento giudiziario, seppur tardivo, nelle sentenze di condanna.

Il procuratore ha proprio questo grande rimorso: “Ci siamo mossi troppo tardi”. Sarebbe bastato agire otto anni prima, quando è stato catturato Priebke, per raggiungere ben altri risultati: “Anche dopo la scoperta del cosiddetto ‘armadio della vergogna’ nel 1994, qualcuno disse che tutto era finito e che non si poteva più procedere. E lo ha ripetuto poi nel 1998 e nel 2001. I fatti hanno smentito questa sorta di depistaggio”.



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