La magia del Subbuteo, il calcio dove l’Italia vince sempre

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Campioni del mondo (dovete ripeterlo sedici volte, con tutta l’enfasi di cui disponete). In alto gli indici, sia gloria alle unghie: Italia campione del mondo di Subbuteo. Battuto il Belgio 2-1, a Roma, a casa nostra. Al triplice fischio gli azzurri hanno fatto il giro del campo. Questione di un attimo: il terreno di gioco è un metro per meno di un metro e mezzo. Nel Subbuteo ci sono sogni microscopici che hanno il dono di regalarci il viaggio più prezioso: quello che ci riporta bambini, nel perimetro di un’adolescenza dove giocare è la cosa più seria che ci sia.

Italia sedici volte campione del mondo

Da quando esiste la competizione – dal 1994 ad oggi – dominiamo incontrastati: sedici trionfi azzurri nella categoria “Open”, tre volte ha vinto la Spagna, due il Belgio, una Malta. A Cinecittà World la squadra azzurra guidata dal CT Marco Lamberti ha vinto in carrozza il proprio girone, ha superato nei quarti l’Inghilterra (2-0), ha eliminato Malta (3-1) in semifinale e alla fine si è sbarazzata anche del Belgio, storicamente il più temibile degli avversari. Ora, sappiamo tutti – e lo sappiamo perché ricordiamo con un nitore che spaventa la prima confezione, la morbidezza del panno verde del campo, il pallone di plastica che ci rotola sopra – che giocare a Subbuteo è qualcosa di più di un gioco: è una filosofia di vita.

La magia del Subbuteo

Se Darwin sosteneva che l’uomo discende dalle scimmie, è chiaro che l’omino (del Subbuteo) discende dal regno dell’immedesimazione. L’anima del Subbuteo è nella iconicità degli oggetti. Nella sua estetica ritroviamo quella bellezza definitiva che – nel suo rivelarsi – si tramuta immediatamente in nostalgia. Se Orson Welles ci avesse giocato da piccolo, in “Quarto potere” l’ultima parola pronunciata dal protagonista Charles Foster Kane non sarebbe stata “Rosebud”, ma Subbuteo. Nei pochi millimetri che separano l’unghia del dito dall’omino in miniatura che dondola (è adagiato su una base semisferica) ci sta un altrove spazio-temporale dove – come succede nell’età più bella – ogni ipotesi è verosimile e ogni orizzonte è avvicinabile. La magia del Subbuteo risiede nella sua capacità di trasformare la propria cameretta in San Siro, Wembley, il Maracanà.

Un rito iniziato negli anni quaranta

Il Subbuteo fu inventato alla fine degli anni 40 da un ornitologo inglese (si chiamava Peter Adolph, Subbuteo è il nome di un falco), negli anni 70 conobbe il momento di massimo splendore: chi è stato bambino in quegli anni lo sa e siamo qua a dirgli che non si deve vergognare se oggi – incrociando con lo sguardo una vecchia confezione – sente il cuore incrinarsi di una malinconia che non ha consolazione. Quindi – tra il calar degli anni 80 e l’alba di fuffa dei 90 – vennero i videogames e – nel corto circuito del futuro che avanzava a botte di pixel – il calcio da tavolo finì in cantina: il Subbuteo era diventato un vizio da carbonari, a parlarne ci si sentiva come chi entra in un fashion bar all’happy hour e – in un tripudio di “Daiquiri” e “Passion Fruit” – chiede una cedrata temperatura ambiente. A Subbuteo, in Italia e nel resto d’Europa, oggi continuano a giocare grandi – con il mal di schiena e le ginocchia che scricchiolano – e piccini che si alzano in punta di piedi per raggiungere l’altezza del tavolo di gioco. E a giocare bene, par di capire: siamo o non siamo campioni del mondo? E così i bambini infiniti di quell’età dell’oro hanno riscoperto l’antico brivido di lussuria derivato dal vedere le squadre schierate in campo, immobili nella fissità felice dell’infanzia. In fondo gli omini in miniatura altro non erano che soldatini che avevano disertato, abbandonando i fucili e rincorrendo un pallone. Giocavamo a Subbuteo, certo: facevamo l’amore, non la guerra. 

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