“La mia Paola uccisa da un suo paziente: sarebbe bastata una porta a salvarle la vita”

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“Non cerco vendetta, Paola non ce la restituirà nessuno, ma credo nella giustizia e il 25 febbraio sarò in aula per la sentenza. Se ci sono dei responsabili della sua morte pagheranno, noi intanto andiamo avanti con le attività dell’Osservatorio che porta il suo nome, con il quale promuoviamo eventi culturali per dare spazio anche alla positività. Sono sicuro che lei avrebbe voluto così”. Vito Calabrese è ancora scosso, il giorno dopo la requisitoria del pm Baldo Pisani nel processo a carico di sei uomini che avrebbero avuto delle responsabilità nella morte della moglie, la psichiatra Paola Labriola, assassinata da un paziente del Centro di salute mentale in cui lavorava, al quartiere Libertà, il 4 settembre 2013.

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In aula il pm ha ripercorso la storia dell’omicidio, dei mesi precedenti e dei giorni a seguire. Che sentimenti ha provato?

“Mi sento scombussolato, è stato come nel Gioco dell’oca, quando ritorni alla casella iniziale. In questa storia ci sono ancora tante domande senza risposta”.

Il principale imputato, in questo filone processuale, è l’ex direttore dell’Asl Bari, Domenico Colasanto. Lei lo ha incrociato più volte in udienza, ha mai avuto la tentazione di dirgli qualcosa?

“Non saprei cosa dirgli. Sul piano personale non ho nulla contro di lui. Tra noi c’è un leale conflitto giudiziario, che io ho affidato agli avvocati”.

Gli avvocati di parte civile, Michele Laforgia e Paola Avitabile, hanno chiesto per conto di voi familiari un risarcimento da 5,5 milioni.

“Era una cosa che andava fatta ma in realtà i soldi non mi interessano, sono una di quelle persone che crede che servano per vivere. A me del processo interessa l’aspetto simbolico, questo purtroppo è il lavoro che tocca a noi sopravvissuti”.

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Quando sua moglie è morta i vostri figli, Giorgia e Filippo, non erano neppure adolescenti. Sarà stata dura per lei crescerli da solo.

“Molto ma ora sono cresciuti e hanno preso la loro strada: Filippo studia biologia, Giorgia Antropologia, entrambi lontano da Bari, come avevo fatto io, credo che sia un’esperienza umana molto importante”.

Lei invece lavora in un Centro di salute mentale, come faceva sua moglie, com’è adesso la situazione di quelle strutture?

“Sono un operatore psichiatrico anche io, prima ero in servizio a Japigia ora a Carrassi, dove la situazione è migliorata rispetto a quegli anni: adesso le porte sono chiuse, ci sono i citofoni e le guardie armate. Se tutto questo fosse esistito prima, Paola sarebbe ancora viva”.

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E il centro di Libertà in cui lei è morta?
“Quello è stato chiuso e mai più riaperto, l’utenza di quel quartiere afferisce al Centro di Japigia ma io credo che avere una struttura di riferimento vicina sia un’altra cosa. Quel Centro andrebbe riaperto”.

E l’asilo intitolato a sua moglie?

“Anche quello è stato chiuso a lungo ma adesso, per fortuna, è di nuovo in funzione”.

Come è riuscito a sopportare tanto dolore?

“Molte persone mi sono state accanto, ho avuto la fortuna di riuscire a confrontarmi con loro, ho intercettato un sentire comune, una vicinanza anche delle istituzioni. A questi dolori non si è mai preparati ma quando arrivano bisogna trovare gli strumenti per affrontarli”.

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