La partita europea degli incentivi. Dal “riciclo” del Recovery fund a un nuovo Fondo sovrano: ecco di cosa si discute a Bruxelles

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Rispondere agli incentivi green di Usa e al predominio della Cina nella disponibilità di materie prime rare. Mettere a punto un sistema di aiuti che non sfiguri al cospetto delle superpotenze economiche mondiali – dove spesso lo Stato detta le regole all’industria o ne sostiene a piene mani lo sviluppo – e che internamente non generi disparità. Armonizzare i fondi esistenti, far sì che funzionino meglio. E, magari, crearne di nuovi: un superfondo sovrano alimentato con debito comune. La questione è aperta in Europa e la via per risolvere il problema della competitività delle nostre imprese, alle prese con i rincari spietati e la concorrenza sussidiata delle concorrenti in giro per il mondo, ancora inesplorata. Quel che è certo, ha ribadito il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, intervistato da Repubblica, è che bisogna fare in fretta. Questione di giorni, settimane, ma già i mesi sarebbero eccessivi e metterebbero in difficoltà le nostre imprese.

Il piano industriale per il Green

La Commissione europea sta agendo su diversi tavoli. Da una parte, si parla di ammorbidere la regolamentazione in materia di aiuti di Stato in modo che ci sia la possibilità di dare maggior supporto alle imprese che si trovano nel mezzo delle sfide competitive globali. Il 17 gennaio, Ursula von der Leyen ha annunciato che arriverà un “Green Deal Industrial Plan“, il piano per fare dell’Europa “la casa delle tecnologie pulite e dell’innovazione industriale”.

In quel discorso dal Forum di Davos, von der Leyen ha parlato di alcuni pilastri del piano. Uno regolatorio, riguardante la velocità d’esecuzione e la rapidità per “creare le condizioni” per lo sviluppo industriale in ambiti quali eolico, solare, pompe di calore, idrogeno pulito, stoccaggi. Si tratta di lavorare sui permessi di nuvi siti di produzione e di un aggiustamento temporaneo alle norme sugli aiuti di Stato per “velocizzare e semplificare” l’intervento degli Stati membri sulle compagnie domestiche. Si va verso calcoli e procedure più semplici, permessi accelerati, semplificazione degli aspetti fiscali. La Ue sta anche ragionando di semplificare i requisiti per i cosiddetti Ipcei, Important Projects of Common European Interest focalizzati sulle tecnologie pulite.

La risposta a Usa e Cina

Il ragionamento della Commissione è che ci vogliono strumenti più agili per rispondere a quel che fanno le altre grandi superpotenze. A preoccupare sono soprattutto Stati Uniti e Cina. Nel primo caso, infatti, l’amministrazione Biden ha licenziato un piano (Inflation reduction act) per aiutare le imprese a supportare il rincaro di molte voci di costo nelle filiere produttive. Con 369 miliardi di dollari sul piatto, l’Ira è già stato molto criticato da parte europea perché darebbe indubbi vantaggi a produrre in America e porterebbe – ad esempio – le stesse case produttrici automobilistiche a traslocare la produzione negli Usa a detrimento della filiera del Vecchio continente. Anche la Cina, con i suoi strettissimi legami tra Stato e industria e la sua posizione predominante su alcuni elementi chiave come le terre rare, chiama una risposta coordinata.

I limiti degli aitui di Stato

Il problema è che passare dagli aiuti di Stato è da più parti giudicato insufficiente. Lo ha recentemente sintetizzato il ministro italiano Giorgetti, all’Ecofin in cui si parlava appunto di risposta all’Ira: “Il semplice allentamento delle regole degli aiuti di Stato non è una soluzione perché sarebbe sproporzionato avvantaggiare gli Stati membri che godono di un margine di bilancio piú ampio, aggravando così le divergenze economiche all’interno dell’Unione e conseguente frammentazione del mercato interno“. La stessa von der Leyen, già da parlando da Davos, ha messo in guardia da come la sola leva degli aiuti di Stato possa creare problemi al mercato unico. Il problema è semplice: se si dà più carta bianca ai Paesi membri di sovvenzionare le loro imprese, chi ha più risorse interne di bilancio potrà render più competitivo il proprio tessuto industriale a discapito di chi deve mantenere rigore e disciplina.

Lo stesso commissario al mercato interno, Thierry Breton, ha detto che molti Paesi hanno già annunciato fondi per le tecnologie pulite. Li ha quantificati in 250-280 miliardi di euro, ma se si considerano 100 miliardi tedesci, 45 olandesi, 55 francesi in dieci anni si capisce come siano concentrati. Nel resoconto del 2022 della portavoce per la Concorrenza della commissione è emerso che il totale degli aiuti dell’anno scorso è stato di 540 miliardi di euro, di cui la metà riguarda la Germania, mentre l’Italia ne ha chiesto solo un ventesimo. In quell’occasione è stato spiegato che “la Germania ha notificato il 49,33% del totale degli aiuti approvati, la Francia il 29,92%, l’Italia il 4,73%, la Danimarca il 4,5%, la Finlandia il 3,2%, la Spagna l’1,8%”.

Dal Recovery al Fondo sovrano, gli strumenti sul tavolo

Il problema è che un salto di qualità nella risposta europea, ovvero mettere soldi comuni sul piatto, non è semplice. Fredda è la Germania, frena il fronte del Nord. Breton ha parlato di un “basket” di soluzioni per aiutare i Paesi più piccoli e dai bilanci più limitati e di un approccio che consenta di aiutare in base ai bisogni.

All’ombra di Usa e Cina, l’Europa già litiga sul nuovo fondo “verde”

Ed è su questi aspetti che ha insistito anche Michel nell’intervista a Repubblica. La soluzione minimalista propugnata dal fronte del Nord è di restare nell’ambito del Recovery fund, lo strumento da 750 miliardi per sostenere la ripartenza posta pandemica e che vede proprio il green tra i suoi pilastri. Non tutti i fondi sono stati tirati, è il ragionamento di alcune cancellerie, e quindi bisogna finire di attingere da lì. Fondi, per altro, che già sono stati ri-indirizzati anche al RePowerEu, piano concepito come risposta alla crisi energetica.

Michel chiede come minimo di estendere il fondo Sure. Si tratta dello schema di disoccupazione europeo, 100 miliardi trovati nelle piaghe del bilancio comune e messi a disposizione dei Paesi membri in forma di prestiti, dal 2020, per sostenere gli ammortizzatori sociali.

Ma quel che chiedono i massimalisti è un salto di qualità ben più profondo, cui lo stesso Michel fa riferimento. La creazione di un nuovo veicolo, un Fondo sovrano europeo, che possa realmente competere al pari con le altre economie. Il pivot naturale sarebbe la Banca europea per gli investimenti (Bei), primo istituto finanziario multilaterlae che nel 2021 ha finanziato quasi 95 miliardi di euro a imprese e private, tra Bei e Investment bank e Investment fund. Il cancelliere Scholz su questo frena, pensa piuttosto a un veicolo che in prima battuta raccolga i fondi esistenti e solo come ultima istanza pensi a nuovo debito. Seguito, su questa linea, dal francese Le Maire. L’olandese Rutte chiude la partita agli aiuti di Stato. Insomma, la frattura è ancora una volta ampia.

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