La politica, la giustizia e la grande nevicata: la Milano di Giorgio Bocca, 35 anni di racconti diventati storia

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Domani 28 gennaio, con Repubblica-Milano, regaliamo ai lettori il libro “Bocca, 35 anni con noi”. Sono brani tratti dagli articoli che ha scritto dal 1976, dalla nascita del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, sino al 2011, quando è mancato. Una selezione non facile ma con un’idea di fondo: chi c’era, può ritrovarsi. E chi non c’era, se legge ‘il Bocca’ può farsi un’idea non solo del Nord, di Milano, del passaggio delle stagioni politiche ed economiche ma anche di che cosa possa essere la scrittura giornalistica.

“Dei comunisti milanesi si può dire: sono il più grande partito nella città, ma la conoscono poco e vi sono poco conosciuti” (1976).

Strage di mala al Moncucco: “Sono venuto qui incauto ma curioso tre anni fa a parlare della Resistenza in un cinema stracolmo di figli d’immigrati che fin dall’inizio urlavano, scorreggiavano, ridevano, ma poi si misero a tirarci torsoli e palle di carta, non perché fossero fascisti, ma perché non sapevano niente della nostra storia e non gliene fregava niente” (1979).

“Il sindaco di Milano, Carlo Tognoli, è un robot cortese e onnisciente che fuma anche il sigaro”. Gli chiedo: “Perché avete lasciato chiudere la salumeria di via Agnello vicina al Duomo? Chi sta al centro di Milano non deve più mangiare?”. Tempo due minuti il sindaco elettronico ha già chiesto e ottenuto la risposta da qualche recondito ufficio di Palazzo Marino: ‘Subentra una banca, niente da fare, a qualsiasi altro esercizio avrei potuto oppormi, alle banche no. E adesso arrivano le banche straniere. Possiamo respingerle?'”(1983).

Quando ci fu la grande nevicata. “Trent’anni fa il Comune aveva novemila spalatori in una città che era il terzo dell’attuale. E sapevano spalare, erano contadini inurbati (…) un milanese con la pala in mano oggi fa ridere, sembra che il manico sia insaponato, non la sa tenere, non la sa piantare premendola con il piede” (1985).

Rischi sociali. “Nella comunità eritrea di Milano dicono che in Italia siamo al pre-razzismo. Altri immigrati parlano di apartheid morbido (…) Insomma i poveri del Terzo Mondo sono sbarcati anche da noi e non intendono andarsene” (1988).

Il potere di Milano. “Negli stati generali della città di Milano, convocati ieri al Piccolo, era assente l’aristocrazia, era presente il clero, nella persona carismatica del cardinal Martini ed era dominante l’alta borghesia imprenditoriale, professionale, burocratica, il capitalismo del capitale e quello del sapere. Il sindaco di Milano Gabriele Albertini è uno dei loro, lo si capisce dagli applausi forti, lunghi, dal cuor sortiti che hanno accompagnato i suoi interventi. Se si pensa al vuoto che c’era attorno al sindaco leghista di Milano Formentini, si ha l’impressione, quasi fisica, di come i poteri reali di Milano si siano ricompattati”. (1998).

Obbrobri giudiziari. “Eccola la fotografia del riconoscimento di Pietro Valpreda, esattamente come lo ha raccontato lui nelle sue memorie, 16 dicembre 1969: ‘Mi guardo attorno. Noto quattro persone in mezzo agli altri agenti trasandati. Tutti e quattro hanno un aspetto lindo e ordinato. La camicia bianca con la cravatta bene annodata, le guance rasate di fresco, i capelli pettinati come si deve. Sembrano pronti a andare a una festa. Quale festa? La mia’”(2000).

Parlando di calcio.”A Torino la divisione fra le due squadre è monarchica. (…) A Milano è fra due signorie, quella degli imprenditori del terziario come i Rizzoli e Berlusconi la milanista e, quella interista dei grandi commercianti come Fraizzoli, Pellegrini e i Moratti. Anche queste signorie hanno la loro corte per cui Gioan Brera fu Carlo, giornalista grandissimo ma anche esimio paraculo, inventò le principesse madri, la moglie del Moratti Angelo e del Fraizzoli se non sbaglio Ivanoe, principe della tavola rotonda e venditore di uniformi militari” (2002).

Per chi vota l’operaio. “Nei giorni di Mani pulite salii al piano alto della procura di Milano per intervistare il grande inquisitore Antonio Di Pietro. Nella procura c’è un lunghissimo corridoio, nel quale, allineate come celle conventuali, ci sono le stanze dei procuratori. L’ufficio di Antonio Di Pietro era in fondo al corridoio, quel mattino occupato dagli indagati, forse un centinaio di persone in fila per tre, facce note: banchieri, politici, che mi guardavano e riconoscevano, quasi in cerca d’aiuto (…). Dopo il recente voto con il trionfo berlusconiano molti hanno parlato del “tradimento del Nord”, rosso e operaio, passato alla Lega o alla destra, come di una grande sorpresa, ma qualcosa del genere era già avvenuta esattamente sessanta anni fa, il 18 aprile del ’48. Anche allora si dava per certo che il Fronte Popolare dei due grandi partiti rossi, il socialista e il comunista, avrebbero vinto a man bassa, e invece stravinse la Democrazia Cristiana, che assicurava la continuazione del vecchio Stato” (2008).

Come parlano i politici. “Ma il decadimento civile del Paese, a cominciare da quello della lingua ridotta a una serie di luoghi comuni, di etichette mandate a memoria, questo è un prezzo durissimo che stiamo pagando alla generale mancanza di indignazione, di protesta a ogni violazione pretesa dal dominio economico e pubblicitario”. (…) “Sarà effetto della vecchiaia, della memoria lunga, ma mi sorprendo spesso a pensare e a parlare in piemontese, a chiamare le cose con un nome, con il loro nome nativo” (2011).

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