Le signore dello streaming: “Da dieci anni combattiamo per avere set più green”

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Come due abitazioni per un anno intero. Ecco quanto energia consuma, e di conseguenza quanto gas serra immette nell’atmosfera, un’ora di una produzione televisiva. Ed è solo una media. A seconda di cosa si prende in considerazione, da Trono di spade a New Pope, dalla La Casa di Carta a X-Factor e American Gods, la quantità di CO2 cambia sensibilmente. Si può passare da 10 tonnellate per ora per un talent show fino a 200 o 300 per le mega produzioni. Con tre stagioni di una serie di punta si arriva quindi anche a 10 mila tonnellate.

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Per dare un metro di paragone, basti pensare che secondo l’Emissions Database for Global Atmospheric Research (Edgar) in Italia nel 2018 di CO2 ne abbiamo prodotta a testa circa 5,8 tonnellate l’anno, in Inghilterra 5,6, in Germania 9,1. Questo significa che quelle tre stagioni hanno prodotto l’equivalente di mille e 800 persone nel corso di dodici mesi. Meglio comunque un notiziario di una commedia, peggio di tutti la grande fiction e in generale le produzioni milionarie dove vengono spostate centinaia se non migliaia di persone da una location all’altra.  


“La British Academy of Film and Television Arts (Bafta) è dal 2011 che calcola con una precisione crescente l’impatto di cinema e televisione”, racconta Roser Canela-Mas, a capo della divisione di Bafta che i occupa di sostenibilità. Nata a Barcellona, dopo anni nel mondo delle produzioni tv si era stancata e aveva intrapreso all’università studi di management ambientale. Ironia della sorte Bafta l’ha assunta perché cercava qualcuno che fosse a metà fra i due mondi.

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“Lo facciamo grazie ad uno strumento che abbiamo sviluppato, chiamata Albert”. E’ una piattaforma nella quale si immettono tutti i parametri, dalle luci utilizzate agli spostamenti, che negli ultimi tempi è diventata il primo punto di riferimento in fatto di misurazioni. E’ stata usata in 10 mila produzioni di mille e 800 compagnie diverse e ha generato mille certificazioni. Se infatti non ci si limita a caricare i dati per sapere quale è la propria impronta di carbonio ma si dimostra di aver perso delle contromisure per ridurre i consumi, passando ad esempio dalle lampade a incandescenza a quelle led o dai mezzi a benzina a quelli elettrici, Bafta fornisce un certificato. Insomma, per quanto possa sembrare strano il mondo dell’intrattenimento alla questione ambientale ci pensa da tempi non sospetti.

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Sia dentro la British Academy of Film and Television Arts, così come nel colosso dello streaming Netflix e nella casa di produzione Fremantle, a guidare le danze in questo campo sono delle donne. Oltre a Roser Canela-Mas, ci sono Emma Stewart, Netflix Sustainability Officer, e Jane Atkinson, senior vice president, Global Production di Fremantle. Storie ed età diverse, ma un’idea comune: anche tv e cinema devono fare la loro parte per dare una mano a combattere la crisi climatica.

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“Dieci anni fa si è cominciato a misurare l’impronta di carbonio dell’intrattenimento televisivo. Ma anche quantificando, non si sapeva cosa fare esattamente per migliorare la situazione”, ricorda Jane Atkinson, che ha un lungo passato alla Bbc. “Solo negli anni recenti sono state adottate misure capaci di fare la differenza iniziando dall’usare energia che proviene da fonti rinnovabili. In generale in uno show come X-Factor, che è tutto in studio, è più facile intervenire. Su una serie girata magari in diversi luoghi le cose cambiano parecchio. Sono le produzioni che hanno l’impatto maggiore e buona parte del danno lo fanno gli spostamenti”.

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Oggi nel mondo del cinema e della tv, come avviene ormai ovunque, si fa a gara a mostrarsi green anche se a volte si scivola nel greenwashing, termine con il quale si definisce l’ecologismo di facciata. Il marketing e la promozione dell’immagine aziendale del resto hanno il loro peso, ma se si guarda in dettaglio al funzionamento di Albert, piattaforma che ormai arriva anche ai pasti distribuiti sul set e al numero di bottigliette d’acqua o al tasso di riciclo dei materiali scenici usati, ci si accorge che in questo caso non si tratta di una facciata di comodo. La riduzione dell’impatto ottenuto fra il 2019 e il 2020 delle produzioni che l’hanno usata è del dieci per cento. E non sono poche: solo nel 2019 sono state consegnate 268 certificazioni ed è stata calcolata l’impronta di 1331 produzioni.  

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“Ho letto uno studio che trattava degli effetti sull’ambiente derivante dall’uso del carbone. Era datato 1912. Di questi problemi siamo quindi a conoscenza da molto, molto tempo”, commenta Emma Stewart, che dopo la laurea a Stanford ha lavorato fra gli altri per Autodesk come capo della sostenibilità e al World Resources Institute prima di approdare a Netflix. “Eppure l’idea di sostenibilità è nata nei primi anni Novanta, ma il termine divenne più comune attorno al 2008. Prima si parlava di responsabilità delle aziende, fra le quali c’era in parte anche l’ambiante. Devo confessare che all’inizio era frustrante parlare di questi temi, non sempre di davano ascolto. Oggi per fortuna la musica è completamente diversa”.

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Con 500 produzioni l’anno, Netflix sta iniziando ad imporre che si pensi fin dall’inizio alle fonti energetiche che verranno usate. Anche perché altrimenti si è costretti ai generatori diesel che sono inquinanti e poco agili. La compagnia vorrebbe arrivare alla neutralità di emissioni entro il 2030 ma per farlo deve ancora risolvere diversi aspetti tecnici e trovare nuovi strumenti. “Per questo è uno sforzo che deve compiere tutto il settore facendo nascere collaborazioni su questo fronte anche con i diretti concorrenti”, continua Stewart. “Albert ad esempio è essenziale, ma non è l’unica piattaforma simile e noi stessi a Netflix ne stiamo sviluppando una nostra”.

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Intanto anche i notiziari si stanno muovendo con la nascita a gennaio di quest’anno dell’Albert news consortium che segue quello dedicato agli eventi sportivi. Ne fanno parte per ora Itn, Bbc, Itv News, Sky News and Channel 4. La missione è concentrarsi sulle specifiche questioni ambientali legate alle notizie e collaborare per ridurre l’impatto della produzione di news con la creazione di una certificazione per i telegiornali e un unico metodo di misurazione dell’impronta di carbonio. “Non c’è mai stata necessità più urgente per il nostro settore di riportare al pubblico in modo accurato sulla crisi climatica”, ha dichiarato Sarah Whitehead, vice direttore del Newsgathering a Sky News. Sky del resto, che vuole arrivare ad emissioni zero entro il 2030, è media partner del vertice Cop26.

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Di strumenti di analisi per calcolare quanto consuma una produzione ne esistono diversi fra Europa e Stati Uniti. Vi si aderisce volontariamente e i dati caricati sono di fatto una autocertificazione. Per altro molte di queste compagnie sono membri attivi e finanziano la British Academy of Film and Television Arts. Quando chiediamo a Roser Canela-Mas se in questo non vede un pericolo, risponde che Albert è in primo luogo uno strumento di analisi usato internamente dalle varie compagnie. Ed è abbastanza accurato da rendere la vita difficile alle menzogne. “Ma certo, se qualcuno sostiene che quel dato camion per portare le attrezzature di scena ha percorso 100 chilometri e non 300 come è realmente accaduto, è difficile contestarlo. Abbiamo però dati di migliaia di produzioni, quindi dato un certo budget e considerando le attuali tecnologie, se si scende miracolosamente sotto una certa soglia poi bisogna argomentare bene il risultato. In più, per quanto riguarda le certificazioni date da Bafta, controlliamo tutto in dettaglio e se qualcosa non torna chiediamo chiarimenti. Io vado da loro a dirgli che vogliamo creare degli eroi che tentano di salvare il Pianeta e non lavoriamo per punire gli altri. Sono convinta che le persone non siano cattive, solo non hanno avuto l’opportunità di fare meglio o non ne sa abbastanza sull’ambiente”.

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Un problema schiettamente di mentalità e di cultura, confermano a Fremantle, dove ad ogni serie e ad ogni show viene incaricata una persona di controllare come vengono immessi i dati nella piattaforma Albert. “In nord Europa è una cultura molto presente”, spiega Jane Atkinson. “In Italia c’è un’attenzione all’uso della plastica mentre in altri Paesi la cultura ambientale è meno presente”. Ora però molte grandi multinazionali si sono date degli obbiettivi ben precisi in termini di emissioni. La speranza è che a cascata, più prima che poi, tutti comincino a fare la loro parte.

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