L’Italia chiede a Draghi di andare avanti, governo appeso a un filo

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ROMA. Gli appelli si moltiplicano e a Palazzo Chigi non passano inosservati. Mentre in Parlamento prende forma la scaletta dello showdown di mercoledì (discorso di Mario Draghi e voto di fiducia, prima al Senato, di mattina, poi alla Camera), fuori dal Palazzo continuano ad arrivare inviti al premier perché ci ripensi e resti al timone del governo. Per scongiurare la “tempesta perfetta”, il deflagrare “di più crisi lontane dall’essere risolte”.

Dopo i mille sindaci, gli imprenditori, la Chiesa italiana e il Vaticano, l’ultimo appello lo sigla il mondo dell’associazionismo, rappresentato in tutte le sue sfaccettature: dai cattolici agli ambientalisti, dalla cooperazione alla lotta alle mafie. Una sfliza di sigle: Acli, Arci, Azione Cattolica, Confcooperative, Cnca, Fuci, Legambiente, Legacoop Sociali, Libera. Altre sottoscrizioni si aggiungono in corso d’opera. La prima firma è quella di Maria Falcone, sorella del giudice ucciso a Capaci e presidente della fondazione che porta il suo nome. L’appello al premier e ai partiti che fin qui l’hanno sostenuto chiede di “evitare una crisi di governo” al buio. Crisi già innescata eppure, è la speranza, non ancora irreversibile. Viene espressa “profonda preoccupazione” per la “tempesta perfetta” alle porte. “La drammaticità del momento e le tante domande di dignità della società non hanno bisogno di una crisi perché ne uscirebbero ancora più compromesse”, si legge. Anche i rettori chiedono al premier di restare a Chigi: “L’università ha bisogno di lei”, scrive Ferruccio Resta, il presidente della Crui, la Conferenza dei rettori delle università italiane. Usa lo stesso tono la petizione diffusa da Tuttoscuola, che in poche ore raccoglie migliaia di adesioni: prof, presidi, sindacalisti, famiglie. Mentre a Roma e a Milano centinaia di cittadini si radunano nelle piazze “per Draghi”, convocate da calendiani e renziani. E proprio da Iv forniscono questo numero: in 100mila hanno firmato la petizione pro-premier.

La partita parlamentare però non ha ancora preso una direzione. Il nervosismo (e le spaccature) tra i partiti sono emerse plasticamente ieri mattina, al momento di prendere una decisione in teoria solo procedurale. E cioè dove far partire la conta in Aula, dalla Camera o dal Senato. Nella capigruppo dei deputati, il Pd ha chiesto di avviare la discussione a Montecitorio. Si è subito accodata Iv. Poi è stata la volta di Davide Crippa, il capogruppo governista del M5S, ormai in rotta con Giuseppe Conte. Contrarissimo il centrodestra, a ranghi completi: Lega, FI e FdI.

Il motivo è tattico: alla Camera i 5 Stelle tendenza governo sono molto più numerosi che in Senato, dove l’ala dura del Movimento, che tifa per lo strappo, è largamente maggioritaria. Votare prima a Montecitorio, avrebbe permesso di far emergere subito la pattuglia draghiana dei grillini. Roberto Fico però si è messo di mezzo. Il presidente della Camera, oggi contiano, per ragioni “istituzionali” ha convenuto con la presidente del Senato, la forzista Elisabetta Casellati, che il dibattito dovesse partire dal Senato, la “culla” del governo (nel linguaggio parlamentare, il ramo del Parlamento dove si è votata la prima fiducia). È la prassi. Dunque andrà così: discorso di Draghi a Palazzo Madama, interventi dei senatori, poi voto con “chiama fiduciaria”. “A meno che il premier non decida subito di confermare le dimissioni e di recarsi al Quirinale”, spiegano fonti di Montecitorio. In quel caso, niente conta. Tra i pochi a rimanere ottimisti c’è Matteo Renzi, playmaker di tante crisi: “Penso che alla fine Draghi farà prevalere il senso delle istituzioni” e che il finale sarà che “Draghi torna a Chigi e Conte torna a casa”. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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