Lucia Petrucci: “Anche il mio ex era un bravo ragazzo. Ma mia sorella è morta e io sono viva per miracolo”

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«Alle ragazze dico: parlate al primo segnale. E ai ragazzi: chiedete aiuto, anche solo per gestire la rabbia. Neanche io mi sarei mai aspettata quello che mi ha sconvolto la vita ma ho sbagliato a non confidare le mie ansie ad un adulto».

Sono passati undici anni e le immagini della tragedia che le ha portato via sua sorella, sono sempre vivide nel cuore di Lucia Petrucci. Samuele, l’ex fidanzatino del liceo, che l’aspetta sotto casa a Palermo al ritorno da scuola, l’aggressione improvvisa, la lama del coltello, lei ferita da diverse coltellate, Carmela che le fa scudo con il suo corpo e muore al posto suo uccisa da un ragazzo che non accettava di essere lasciato ma che non si era mai mostrato violento. Un bravo ragazzo, anche lui.

Oggi Lucia ha 29 anni e dopo tanto tempo è riuscita ad aprirsi ad una relazione con un ragazzo che ha conquistato la sua fiducia. «Non possiamo pensare che gli uomini siano tutti uguali se no non avrebbe senso questa battaglia». Ma il suo vissuto non l’abbandona. «Non sai mai chi è veramente l’altro, cosa può accadere da un momento all’altro, c’è sempre il dubbio. E anche quella che può sembrare una semplice violenza verbale può piombarti di sopra improvvisamente e colpisce qualsiasi classe sociale».
Insegna Lucia e da qualche anno, elaborato il suo lutto per la sorella a cui era legatissima, va anche in giro nelle scuole a testimoniare la sua esperienza, a parlare con ragazze e ragazzi «perché non voglio che altri passino quello che ho passato io. C’è sempre qualche segnale da cogliere e se lo si fa in tempo utile si può intervenire. E io intendo fare la mia parte».

I segnali appunto. E la comunicazione, la capacità di aprirsi da parte dei ragazzi e di ascoltare da parte degli adulti. Lucia, a suo tempo, non lo fece. La gelosia di Samuele, i suoi messaggi ossessivi, i tentativi di entrare nella sua pagina Facebook: sapeva tutto sua sorella, ne aveva parlato ad un’amica, ma non ai genitori.

Oggi dice: «È stato un errore. Per questo ai miei alunni, a tutti i ragazzi che incontro nelle scuole, dico sempre: parlate, non chiudetevi, solo così si può venire fuori da situazioni che, anche se al momento non se ne ha consapevolezza, possono degenerare improvvisamente. Una mia alunna, che non voleva più stare con il suo ragazzo, ha trovato coraggio nel mio sostegno, è riuscita a trovare la forza di lasciarlo e ora è serena. E un ragazzo, ossessionato dalla gelosia e dalla rabbia per una relazione finita male, dopo aver accettato di parlare con me, è riuscito a canalizzare la rabbia e a gestirla . Per me è la riprova di quanto l’impegno di chiunque di noi possa essere importante».

Parlare ai ragazzi più che alle ragazze, senza mai giustificarli. E ai genitori. «È una questione culturale. Piuttosto che dire alle figlie cosa non devono indossare per evitare situazioni spiacevoli, insegnino ai figli come trattare una donna».

Samuele Caruso, l’assassino di sua sorella, è in carcere da 11 anni, condannato all’ergastolo. Era un mostro? «Non ho mai creduto nei ragazzi malati, nel raptus, nella follia, è solo strategia processuale. Non bisogna mai svilire o minimizzare le loro azioni, che si rendano conto o meno di quello che fanno. È sulla loro rabbia e sulle loro ossessioni che bisogna intervenire. E noi donne dobbiamo lasciare da parte la propensione ad essere crocerossine, a sentirsi responsabili del benessere altrui, a sentirsi in colpa se il ragazzo con cui non vogliamo più avere una relazione sta male. Quando sono loro a lasciare noi chi si preoccupa di come stiamo? Nessuno».

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