Manzini: “Sognavo che Totti mettesse dentro il rigore decisivo per la Champions, quello di Graziani”

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Antonio Manzini, scrittore, noto tifoso romanista. Anzi noto tifoso di Totti. La guarda ancora la Roma?

“Non più, da tre anni ormai, a stento conosco i giocatori. Mi sono disaffezionato al calcio in generale. Da tempo, in campo, non vedo più lo Sport, ma interessi societari, non solo in casa nostra dove è lapalissiano, ma anche in Europa (vogliamo parlare dell’arbitraggio Atalanta-Real Madrid dell’ultima di Champions?). Guardo le partite, molte straniere, come se fossi davanti a un acquario. Credo che ormai siamo ridotti a tifare una banca o una finanziaria, finita l’epoca delle maglie e della passione sportiva”.

Quando ha cominciato ad appassionarsi di Totti? Cosa le piace di lui?

“Da quando è sceso in campo. La marcia in più, la stessa che si vedeva in Baggio – Roberto intendo -, Del Piero, quei bei calciatori che giocano a calcio, che saltano l’uomo, capaci di giocate esaltanti. Mi ricordavano i miei miti di quando ero un bimbo: Mazzola, Rivera, Riva. Totti l’ho visto crescere e da promessa diventare realtà, non è mai andato via dalla Roma, ma questa per me non è una qualità, avrebbe potuto anche trasferirsi che so? al Real, al Liverpool, per me sarebbe stato sempre un grande calciatore “core de Roma”. Il desiderio era che magari un giorno, proprio lui, quel rigore in rete, anni dopo l’errore di Graziani, ce l’avrebbe messo in una finale di Champions. Non è successo. Va bene così”.

Quando ha visto la sua prima partita? E quando è andato la prima volta allo stadio?

“Non sono mai stato un frequentatore di stadi. Per caso, ogni tanto. Ricordo la Roma di Falcao, per esempio. Come giocavano! Che spettacolo. La prima volta allo stadio andai a vedere una partita con il Liverpool. Perché? Mistero, forse una coppa dei campioni… Mio padre mi raccontava di avermi portato anche a vedere Mazzola, ma sinceramente non lo ricordo”.

Da piccolo aveva qualche giocatore preferito?

“Da piccolo non tifavo. La Roma è entrata nel cuore quando facevo le scuole medie. Il mio calciatore era Sandro Mazzola. Avevo anche la sua maglietta, io lo adoravo e me ne fregavo in quale squadra giocasse. Al contrario di mia sorella che teneva per il Cagliari, solo perché c’era Gigi Riva. Mazzola era leggero, aveva i baffi, sembrava danzare sul campo di calcio. Non ho mai ammesso, mai, fosse inferiore a Rivera. Per me Mazzola Sandro era il numero 10, dio in terra e tanto basta. Avrei voluto essere lui”.

Torniamo alla Roma. Dunque quella finale di coppa campioni contro il Liverpool nel 1984 dove l’ha vista?

“Lì. E gradirei non parlarne. Se solo Falcao l’avesse battuto quel rigore…”.

Cosa pensava delle cosce di Sebino Nela?

“Come cazzo fa a infilarsi i pantaloncini?”.

Il suo allenatore del cuore? Liedholm? Mazzone? Capello?

“Liedholm, sempre e comunque. Mazzone era uno spettacolo teatrale, Capello è quello che servirebbe ora. Ma anche negli anni passati sarebbe servito”.

Ha giocato a calcio? In che ruolo?

“Ero stopper, si chiamava così allora, perché ero alto. E facevo un sacco di falli. Sono stato buttato fuori almeno nella metà delle partite. La squadra era in un quartiere difficile della periferia di Roma, i campi in pozzolana con i serci (sassi, ndr) che ti sgarravano le ginocchia, la polvere come in un deserto. Non mi divertivo molto, avevo 11 anni. Poi altri interessi mi hanno preso e il calcio è restato una partitella con gli amici. Ma non ero un granché”.

Ha a ottobre è uscito il suo romanzo “Gli ultimi giorni di quiete” (Sellerio), una storia morale. Quest’anno tornerà il suo personaggio-protagonista, il vicequestore Schiavone. Che tifa per la Romulea.

“Credo di sì, insomma, è la squadra che ha battezzato Totti, no?”.

 Lei ha sempre detto che le piacciono i dieci. Oggi chi guarda? Messi? Neymar?

“L’ho detto, guardo poco calcio. C’era una dose, sbagliata e bugiarda probabilmente, di romanticismo che non c’è più. Il profitto, quello è il problema. Guardo le partite e non so neanche chi siano i giocatori. Ultimamente m’ha impressionato Mbappè, e il Psg (a proposito, qualcuno sa dirmi perché Florenzi se n’è dovuto andare?). L’ultimo numero 10, dopo Totti è ovvio, era Pirlo”.

E del fotoromanzo di Zaniolo che ne pensa?

“Diciamo che me ne frega tanto quanto un dibattito politico su Rete 4”.

 La Roma di Fonseca non batte mai le grandi. Perché? Cosa manca alla squadra? Tigna, carattere, qualità?

“Non sono la persona più adatta per rispondere, non seguendo più la squadra. Per caso l’ho vista giocare col Benevento e ancora me ne pento. Lei mi dice che non batte le grandi, io ricordo che perdeva con le piccole. Insomma, prima o poi si troverà la quadratura del cerchio. Credo, modestissimo parere, che una squadra debba restare tale per un po’ di anni. Non fa bene cambiare allenatore e rosa ogni stagione, viene meno l’identità in campo e fuori. Tigna e carattere si acquisiscono con l’abitudine a vestire una maglia (De Rossi e Totti docent) e con quelle anche la qualità. Se ogni anno cambi il ct, ci metti sei mesi a capire che razza di gioco vuole fare l’ultimo arrivato, lo impari, e dopo sei mesi ti ritrovi punto e accapo”.

Meglio il Liverpool di Klopp, il Manchester di Guardiola, il Tottenham di Mourinho o l’Everton di Ancelotti?

“A me ha impressionato il Psg, ma magari era solo una partita azzeccata”.

Chi vince il campionato?

“Ah ah ah ah…”.

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