Marco D’Amore: “Per chiudere con Ciro gli tolgo la bellezza”

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Marco D’Amore festeggia i 40 anni con un libro, un film e l’addio a Ciro Di Marzio. Il romanzo è Vesuvio, scritto con l’amico Francesco Ghiaccio, il thriller è Security, dal romanzo di Stephen Amidon, riambientato a Forte Dei Marmi, su Sky e Now da oggi. L’ultima stagione di Gomorra è la quinta, le riprese sono terminate una decina di giorni fa, con commozione e lacrime social.

Marco D’Amore in ‘Security’: “Più possiamo vedere e più siamo informati, la bugia dei nastri tempi”

Security è un thriller che è anche una fotografia della società di oggi: l’ossessione della sicurezza, la paura dell’estraneo, il moltiplicarsi delle immagini e la violazione della privacy. Quanto il tema influenza la sue scelta di un film?
“Per me è fondamentale mischiare due cose: l’esplorazione artistica, il linguaggio del mezzo con cui ti misuri e l’indagine della realtà intorno a noi, i temi che la agitano e animano. Ho fatto dieci film, uno ogni due anni, anche in ruoli collaterali, ma in storie che ambiscono parlare del presente. Security lo fa in modo incredibile, con una lungimiranza che solo l’arte può avere. Abbiamo finito il film un mese prima del primo lockdown, alla fine il personaggio dice: ‘Che tragedia quando le persone scendono in strada solo quando condividono un malessere, altrimenti se ne stanno barricati in casa’”.

Nel film una generazione di adulti più potenti e ricchi schiaccia quella degli adolescenti.
“La depravazione di una società la vedi dall’investimento sulla gioventù e nel rispetto della vecchiaia. Siamo un Paese che considera poco queste due età, eppure i giovani sono l’unico motivo per cui bisogna pensare di costruire il futuro e i vecchi sono quelli da cui avere risposte rispetto agli errori commessi. In Security da chi ti aspetti saggezza e conforto arriva invece la violenza: c’è una mancanza di tutela dei giovani, nuclei familiari in cui tutto traballa, senza conforto”.

Due adolescenti figli di boss, Federico e Susy, sono protagonisti di Vesuvio, scritto con Francesco Ghiaccio. Stessa età delle protagoniste del film Dolcissime, mentre con L’Immortale si racconta del giovane Ciro.
Vesuvio è una storia che nasce da un principio non solo narrativo, ma emotivo, legato a un periodo della vita verso cui noi abbiamo un ricordo splendido, l’adolescenza. Anche e soprattutto, però, perché sentiamo che questa età è molto vessata da chi la giudica con superficialità. Una generazione considerata sciatta, disinformata e disattenta. Per lavoro siamo entrati in contatto con molti ragazzi nelle scuole e abbiamo compreso che il loro è solo un altro modo di osservare il mondo. Patiscono molto il giudizio e la violenza con cui gli adulti decidono cosa devono diventare. Così abbiamo scelto due ragazzi per cui la strada sembra segnata, ma che attraverso un percorso di crescita emotiva e culturale si appropriano del loro destino e ribaltano il campo. L’idea è costruire intorno a questi ragazzi la convinzione che ci siano altre possibilità che hanno tutto il diritto di percorrere. Gli adulti di Gomorra hanno già scavallato questa possibilità”.

Come ha chiuso i conti con Ciro di Marzio?
“Gli ho tolto la bellezza. È stata la cosa migliore che potessi ottenere. Se metti vicine due immagini della prima e dell’ultima stagione il cambiamento è impressionante. Dicevamo, con Salvatore Esposito, che i nostri personaggi sono i grandi timonieri della serie, che abbiamo fatto trasformazioni eclatanti che poco spesso ci si consente in un racconto seriale, in cui si tende sempre di più a costruire un rapporto di fedeltà tra pubblico e personaggio, che resta lo stesso. Noi abbiamo piegato i nostri personaggi alle vicende e quindi nell’ultimo capitolo Ciro non poteva non apparire privato di tutto ciò che lo aveva connotato all’inizio. Cioè quel un fascino guascone e piratesco che lo ha reso attraente anche da un punto di vista erotico – lo dico dall’alto della considerazione di questo termine. Abbiamo raccontato come certe vite gravano non solo sull’anima ma sul corpo, sulla biologia. Non ho avuto paura di trattarmi male in questo senso. Lo dico perché sento uno svilimento del nostro mestiere, sempre più legato a certi ideali di bellezza, con la paura di sfiorirsi per raccontare anime”.

Quanto è stata salvifica l’amicizia con Salvatore Esposito in questi anni di successo?
“Siamo stati la sponda l’uno dell’altro in attimi in cui davvero sarebbe stato anche giustificato perdere la testa: osannati, imitati, parodiati, citati, incensati da gente che abbiamo sempre osservato da lontano. Ci siamo difesi a vicenda, soprattutto abbiamo dimostrato rispetto per il progetto anche nelle discussioni interne, nelle crisi. Abbiamo costruito, in otto anni, un’amicizia che va ben al di là di Gomorra. Sogniamo di lavorare insieme su altri progetti, anche in vesti diverse, sperando di non perderci”.

Vesuvio è nato come soggetto di un film.
“Una sfida. Vogliamo affrontare linguaggi e generi diversi. Abbiamo pensato a una favola, come le raccontava Sergio Leone, con un contesto iperrealistico in cui ambientare le vicende incredibili di esseri umani. E sì, ci interessa anche un contesto musicale all’interno del film, un altro modo di raccontare la criminalità, con lo sguardo dei ragazzi”.

La sua carriera di attore?
“Credo di avere molte più possibilità da regista e autore, che attore, lo dico in pace con me stesso. Le proposte arrivano dall’ambiente underground, opere prime di giovani autori e sono felice di continuare questo percorso anche nel caso in cui non riesca, per limiti miei, a trovare un grande autore italiano con cui fare un percorso insieme”.

Quarant’anni il 12 giugno. Cosa significa per lei?
“Sono fatalista, la fine di Gomorra arriva con i miei 40 anni. Mi piace legare ai numeri certe circostanze, il cambiamento. Devo smettere di pensare a me come un discepolo e affrontare nuove responsabilità. Vorrei sorprendere me stesso. In questi anni mi sono mosso su temi e mondi rispetto ai quali ho confidenza. Adesso vorrei mettermi in difficoltà. Come dice Goethe, camminare sul filo del funambolo”.

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