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Mariupol, condanna a morte tra le macerie. “Qui la resa non è un’opzione”

ZAPORIZHZHIA – Si può arrendere una città che non esiste più? No: un morto non sceglie. Mariupol ieri non ha così potuto alzare la sua bandiera bianca, pretesa dai russi che ormai occupano buona parte dello spazio su cui sorgeva. Non l’ha fatto perché non è più un campo di battaglia realisticamente conteso. È già un’altra cosa, rispetto alla guerra che ha combattuto per diciannove giorni: un deserto di macerie, crollate sopra 350 mila persone allo stremo e barricate nel sottosuolo. Attorno, per decine di chilometri, campagne abbandonate, il Mare d’Azov perduto, la steppa minata e i villaggi conquistati dall’armata del Cremlino. 
Può, una simile realtà, scegliere tra resa e resistenza? No. Tantomeno se dal suo cielo nero vengono sganciate 145 bombe al giorno su chi ancora si ostina a respirare. La risposta al surreale ultimatum di Mosca, che ha offerto due ore per deporre le armi e fuggire ad alcune migliaia di combattenti impegnati a difendere la propria vita e lo spazio dove restano postazioni militari e armi ucraine, non è infatti arrivata dal cimitero di Mariupol. Nella notte è partita da Kiev: con senso pratico il governo ha spiegato come la resa dello snodo da cui dipende il destino della guerra di Putin “non è un’opzione”. Per gli abitanti costretti a restare in costante attesa della propria fine, la verità è evidente. La presa russa di ciò che Mariupol è stata fino ai primi di marzo non è più in discussione: la domanda tragica posta dalla povera gente non è “se”, ma “quando” il martirio potrà essere anche ufficialmente dichiarato compiuto. “Viviamo di istante in istante – dice Gleb, medico arrivato a Berdyansk con tre bambini feriti da schegge finite nel cortile di casa – ma la vita come l’abbiamo intesa prima, qui non tornerà. Nessuno uscirà da Mariupol con il profilo classico di un essere umano”. 
A seminare ieri la disperazione tra le persone nascoste nei rifugi, il ricatto realmente nascosto da Mosca dietro l’ultimatum della resa alla brigata Azov e ai nazionalisti della resistenza territoriale. Alzare bandiera bianca, oppure vedere preclusa la possibilità di evacuare decine di migliaia di civili, di assistere all’arrivo di aiuti cruciali per fermare lo sterminio. “I corridoi verdi nelle città più colpite del Paese – è la comunicazione del governo ucraino – in accordo con i russi sono aperti. Tutti, tranne quello di Mariupol”. Il prezzo di necessità politiche e militari, lo paga la popolazione civile. 

Dai check-point russi ormai si spara anche sugli autobus carichi di scolari: quattro ieri i bambini feriti. “Senza vie di fuga – dice Vjoleta, docente di matematica all’università – moriremo tutti. Ogni giorno cresce la montagna dei corpi per le strade. Putin pretende la catastrofe umanitaria: per addossare la vergogna ai nazionalisti che, rifiutando la resa, la starebbero rendendo inevitabile”. L’Ucraina resiste all’invasione russa grazie al coraggio del popolo. Più dell’esercito di Kiev, il nemico del Cremlino: per questo i missili a Mariupol devono eliminare le persone. Esse sono però così consumate, isolate e terrorizzate, che l’accelerazione di tale consapevolezza comincia a incrinare la forza collettiva. Bloccare le vie di fuga verso l’interno della nazione equivale a spingere decine di migliaia di profughi nei quartieri est della città, conquistati da Kadyrovtsy e milizie del Donbass: da qui i treni deportano solo verso la Russia. 

Nei centri di accoglienza di Zhaporizhzhia, i sopravvissuti non parlano più del loro personale calvario. Si interrogano sul destino delle rovine di Mariupol. “Per ricostruire – dice Tymofiy, ingegnere nello stabilimento Azovstal distrutto – ci vorranno fra 30 e 50 anni. Chi lo farà? I russi? Con i soldi di Europa e Usa? Serviranno generazioni di violenza per imporre un potere ostile alla gente che hai massacrato”. Per gli invasori, quello che definiscono “cappio” soffocherà ufficialmente Mariupol non prima di una settimana. “La città è grande – dice Denis Pushilin, capo delle milizie separatiste filorusse di Donetsk – ci vuole tempo per pulirla. Abbiamo la lista con i nomi di chi eliminare: li staneremo dalle cantine dove per salvarsi sequestrano la gente che muore di fame”. 

(ansa)

Fra 3 e 5 mila le vittime civili: un’altra settimana, per i vivi, non è immaginabile. “Sono sicura che morirò prima – il messaggio di Nadezda Sukhorukova – spero solo che non sia così spaventoso. I cadaveri si mettono al freddo sui balconi: chissà quanti corpi sono esposti davanti alle nostre finestre senza vetri”. Il tempo di Mariupol è scaduto: chi va per mare e chi semina la terra, è già oltre l’attesa. Cinque navi ucraine con migliaia di tonnellate di grano sono state trainate ieri al largo del Mare d’Azov da rimorchiatori russi, come bottino di guerra. I trattori vengono precipitosamente portati via dalle campagne dell’intera regione. Per evitare che finiscano nelle mani degli invasori, i contadini chiedono aiuto ai blindati dell’esercito. Senza grano, navi, acciaio, case, porto, acqua, cibo, elettricità e persone, per Mariupol la resa ai russi “è fuori discussione”. Vero: qui non c’è più qualcuno che possa discutere.



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